Povera Viareggio mia. Corpo e mani trafitte. Ebbi paura, ma venne il rumore d'una motocarrozzetta a farmi riavere. Mi nascosi. Erano militari; passarono, io pensai a tornare.
Ero in " piazza delle paure " (allora io e gli altri ragazzi la chiamavamo così) dove gli uomini del monumento neri, gonfi, uno che strappa qualcosa e l'altro che lo vorrebbe ma non ce la fa, mi dettero il senso dell'assurdo; e concorreva la voce dei passeri vivi e sciamanti, felici in tanto silenzio. Cominciai a correre verso il mare, ma ad un certo punto la via era interrotta: cavalli di frisia ovunque.
Vidi le case lungo il viale a mare smozzicate, sfatte, tutte in una lunga riga di rovine che biancheggiavano sotto il solito sole. Fui in piazza Shelley. Il palazzo Paolina, che era stata la mia scuola, era spalancato, c'erano ancora le tende dietro le finestre dai vetri rotti. Il busto del poeta non c'era e non c'era neppure la piccola inferriata che lo cingeva. Lo sapevo che era già stata tolta per darla alla patria, come le inferriate dei giardini di quasi tutta la città.
La patria aveva voluto ferro per i cannoni, oro dalle donne, per chi sa chi, e uomini da seminare in terra e in mare, come se le acque poi fossero capaci, così come la terra, di far rinascere in una qualche primavera, una pianta di uomini, per rimandarli tutti a casa.
Osservavo come un fantasma, i vetri rotti a terra per le vie, fotografie, vasi da notte, qua e là mucchi di spazzatura sui quali cominciava a crescere l'erba nuova. Per le fessure delle strade che si spaccavano in rime frequenti, sbocciavano piante di pomodori, e tralci sottili di verdure che mi dicevano candidamente che lì gli uomini non ci passavano più, che le donne non ci spazzavano più, che le auto, i carri, le carrozze se ne erano andati spersi chissà dove. Sentivo che Viareggio era morta e che inutilmente il mio passo tentava di restituirle un barlume di vita.
In piazza del mercato, di nuovo, mostruoso silenzio delle cose e sfacciato coro di passeri sui platani. Sopra un tabellone di ferro, resisteva in bianco e nero un annuncio funebre e, più in grande, un cartello di propaganda. Un orecchio grosso e, dietro un uomo con un elmetto piccolo, ciatto. C'era scritto in grande: − Taci! il nemico ti ascolta. - Mi venne in mente che quel nemico che ascoltava tutto, lì, in mezzo a quello scempio, non avrebbe udito che quei passeri e il mio cuore forse, che non capiva null'altro in quel momento, che qualcosa non funzionava più in quel mondo così pieno di controsensi, di odio, di fame. Era inutile che leggessi i nomi delle vie, Battisti, Machiavelli, Fratti, Cairoli, S.Martino, Mazzini, Zanardelli. I nomi non avevano senso. Vuote. Vuote, e non come a notte quando che tra le mura si respira; vuote di respiri, di speranze, di tutto ciò che vivifica la materia intorno. Ecco, avevo scoperto una cosa: la Viareggio mia, quella bella, azzurra, assolata, benedetta da Dio, era nulla senza la sua gente, senza la sua anima.
Per me era come una conchiglia vuota che si porta all'orecchio per ricercare in essa il rumore del mare. Era come un paradiso perduto che si perde senza aver peccato, qualcosa di cui stentavo a capacitarmi. Più tardi ho capito che era lo stupore della vita che viene improvvisamente di fronte al disfacimento, alla rovina, alla morte.
Lungo la via Fratti dovetti scavalcare i pini a terra, stesi di traverso per tutto il corso, fino alla via Marco Polo. L'ansia di riuscire ad andarmene, senza incontrare inciampi, mi fece dimenticare il resto. Sulla via del cimitero mi unii ad altri sfollati, gli ultimissimi.
[...]
Sentii ancora forte l'odio per la guerra e cominciai a piangere, gli occhi torvi in su, al cielo, dove il solito azzurro rideva appena appena turbato da veli rosei e lontani.
( Luisa Petruni Cellai, Viareggio era morta, Racconto segnalato al concorso "Viareggio ieri" 1966 e pubblicato sulla rivista "Viareggio ieri" N.6 del 15 giugno 1966 )