Luttwak e il futuro della Cina

Creato il 05 febbraio 2015 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
di Michele Marsonet. Edward Luttwak, noto politologo ed economista americano che è ora consigliere del “Center for Strategic and International Studies” di Washington, è celebre anche – se non soprattutto – per i suoi studi di strategia. Si rammenta in primo luogo l’ormai classico saggio “La grande strategia dell’impero romano” (tradotto in italiano da Rizzoli), che ebbe un notevole successo ed è tuttora disponibile nelle librerie. Premettendo che per “strategia” l’autore intende in modo primario quella militare, in quel libro troviamo una ricostruzione precisa e circostanziata del funzionamento della macchina bellica romana, nonché delle ragioni che ne causarono il progressivo declino.

Naturalmente la strategia non è una scienza esatta, anche se alcuni grandi strateghi, da Giulio Cesare a Napoleone – per finire con Carl von Clausewitz – possono averlo pensato. Non lo è per il semplice fatto che risulta soggetta allo stesso tipo d’incertezza che caratterizza ogni azione umana, sia essa semplice o complessa. E la strategia è giustappunto la descrizione di un piano d’azione a lungo termine che viene utilizzato per impostare e, in un secondo momento, coordinare le azioni che si propongono di raggiungere uno scopo prefissato. In quanto tale essa si distingue dalla “tattica”, che ha invece il compito di pianificare un’azione singola tenendo conto dei vincoli pratici cui è sottoposta,

Convinto che “la logica universale della strategia si applica perfettamente a ogni cultura di qualsiasi epoca”, Luttwak ha affrontato il “dilemma cinese” in un altro libro: “Il risveglio del drago. La minaccia di una Cina senza strategia” (ancora edito da Rizzoli). Il compito è senza dubbio arduo. L’impero romano è defunto e lo si può, per così dire, osservare agevolmente dall’esterno quale oggetto d’indagine scientifica. La Cina, al contrario, è una grande potenza emergente di cui si conoscono soltanto alcuni aspetti, mentre altri restano avvolti nell’ombra. E’, pertanto, un oggetto d’indagine “vivo” dal quale è impossibile prendere quelle distanze che consentono di condurre l’analisi in maniera precisa.

Nonostante questo handicap il libro presenta notevoli spunti d’interesse, e la sua lettura fornisce parecchi elementi di riflessione a chi s’interroga circa l’ascesa impetuosa del grande Paese asiatico negli ultimi decenni. Molto significativo il sottotitolo: “La minaccia di una Cina senza strategia”. Esso già indica che, a parere dell’autore, non esiste a tutt’oggi una strategia cinese ben delineata. O, ancor meglio, lascia capire che le strategie sembrano essere più d’una, il che implica un pericolo per la stessa Cina e per il resto del mondo considerata la sua crescente potenza economica e militare.

“Sono in molti oggi – esordisce Luttwak – a credere che il futuro del mondo sarà plasmato dall’ascesa della Cina ovvero dal proseguimento della sua crescita economica straordinariamente rapida – anche se alla fine potrà esserlo meno – e dalle naturali conseguenze di uno sviluppo di tale portata: dal costante aumento dell’influenza del Paese negli affari regionali e mondiali all’ulteriore potenziamento militare”. A partire dalla morte di Mao Zedong nel 1976 tale crescita non ha conosciuto soste, tanto che negli ultimi anni il Pil lordo ha sempre registrato crescite. Il doppio, rileva l’autore, del tasso di crescita sostenibile dall’economia Usa, e quasi il tripolo di quello delle economie europee mature. Non ci sono – per ora – segnali significativi di decrescita, anche se è ragionevole ipotizzare che un prolungamento della crisi in Occidente finirebbe per coinvolgere pure la Cina e altre nazioni emergenti quali Brasile e India.

Ciò che a Luttwak interessa in modo particolare è che il boom economico ha causato un potenziamento militare “rapido e a tutto tondo, del genere che si è visto per l’ultima volta negli Stati Uniti molto tempo addietro, e in Unione Sovietica dalla fine degli anni Sessanta agli anni Ottanta”. Si tratta, nel caso cinese, di un potenziamento sia quantitativo che qualitativo. Secondo il politologo americano, tuttavia, ciò non significa necessariamente che la Cina diventi in un prossimo futuro la potenza egemone mondiale eclissando gli USA. Non è scontato che questo accada poiché è la logica stessa della strategia a dirci che in un mondo di Stati diversi tra loro, tutti gelosi della propria autonomia e alcuni, per giunta, culturalmente predisposti e politicamente strutturati per cercare di influenzare altri Stati, l’eventuale egemonia cinese porterebbe a coalizioni ben decise a contrastarla. Luttwak nota anche che “ogni ulteriore aumento del potere cinese potrebbe essere accettato senza opposizioni solo in presenza di cambiamenti radicali interni o esterni alla Cina, dovuti alla sua trasformazione democratica e alla conseguente legittimazione del suo governo, o a minacce pressanti che la tramutino da pericolo in alleato desiderabile per il Paese di turno (il Pakistan è il caso esemplare: l’aumento del potere della Cina rende più apprezzabile la sua protezione)”.
L’ascesa cinese ha in effetti già attivato quella che Luttwak definisce “la logica paradossale della strategia”, causando la reazione di tutte le potenze – grandi e piccole – che si sentono in qualche modo minacciate. Tale reazione non è ovviamente in grado di bloccare l’aumento del potere cinese, ma può senz’altro impedirne il semplice progresso lineare. Dopo il 2008 il tono conciliante prima utilizzato dal governo cinese è stato spesso sostituito da un linguaggio deciso e perfino minaccioso, aumentando i sospetti degli altri Paesi, soprattutto quelli più contigui geograficamente. Il fatto è che, secondo Luttwak, la Cina è afflitta da una sorta di “autismo da grande nazione”. Considerata l’estensione territoriale e il numero enorme di abitanti, ci si concentra sui problemi interni vedendo la politica estera come una mera appendice, e attendendosi per di più che “gli altri” ragionino negli stessi termini dei cinesi. Il che, ovviamente, non accade.

Anche gli americani manifestano spesso l’autismo da grande nazione, ma in questo caso siamo in presenza di una società aperta in cui i leader vengono eletti democraticamente. Il Partito Comunista Cinese prende invece le sue decisioni nelle ristrette stanze del potere e il controllo dell’opinione pubblica è in pratica inesistente. Non solo: ogni rivolta interna in grande stile viene repressa con metodi brutali. Si pensi al Tibet o alla minoranza musulmana degli Uiguri. Nemmeno Luttwak formula previsioni sulla tenuta dell’attuale sistema. Il controllo esercitato dal Partito è ferreo, ma la diffusione di stili di vita occidentali, favoriti dallo sviluppo economico e dal ritorno in patria di milioni di giovani che hanno studiato nelle università americane, europee e australiane, induce a pensare che prima o poi la richiesta di democrazia e partecipazione acquisterà dimensioni difficilmente contenibili.

Anche per quanto riguarda l’esercito, che è stato enormemente potenziato negli ultimi decenni, mette conto riflettere su un fatto. In più occasioni, negli ultimi tempi, i capi del Partito Comunista hanno sentito la necessità di ammonire i vertici militari che la continuazione di questo trend dipende dai vertici politici. Le parole sono state piuttosto esplicite. Soltanto mantenendo un’assoluta fedeltà al Partito esercito, marina e aviazione possono sperare di continuare la loro tendenza espansiva, e qualunque segnale contrario non verrebbe tollerato. E’ un segnale assai indicativo, poiché è sin troppo ovvio che simili ammonimenti non sarebbero stati pronunciati se nel mondo militare non si fossero manifestati sintomi di inquietudine (come sempre trapelati all’estero in maniera confusa a causa della onnipresente censura).

Luttwak conclude che i mezzi di resistenza a disposizione delle nazioni che non gradiscono il continuo aumento della potenza cinese sono di tipo “geo-economico”, il che equivale ad applicare “la logica della strategia alla grammatica del commercio”. Si tratta, in altri termini, di limitare le esportazioni cinesi nei loro mercati e di bloccare il trasferimento di tecnologia di cui Pechino ha ancora bisogno. “Allo stato attuale – egli continua – la sostenuta crescita militare della Cina e la sua recente propensione ad assumere una condotta minacciosa hanno ormai cominciato a pregiudicare l’atmosfera commerciale molto favorevole che ha permesso il rapido sviluppo della sua economia, al traino delle esportazioni. In alcuni mercati i consumatori mostrano ormai segnali di antipatia verso i prodotti cinesi, in particolare in Giappone, Stati Uniti e Vietnam”.

Osservazione preziosa, giacché è un dato di fatto che il “miracolo” cinese si regge in gran parte proprio sulle esportazioni, e la leva commerciale può a questo punto diventare un ottimo strumento per rallentare la crescita militare del colosso asiatico. Resta sullo sfondo il grande dilemma concernente la direzione che la politica e la società cinesi imboccheranno nel prossimo futuro. L’ultimo Congresso del Partito Comunista ha fornito indicazioni al riguardo, ma è difficile immaginare che tutto possa risolversi – come è finora avvenuto – all’interno dello stesso partito. Accadrebbe con il mero ritorno al pensiero di Mao ma, in quel caso, sarebbe pure difficile (o addirittura impossibile) conciliare tale ritorno con le condizioni concrete di un Paese che ha conosciuto negli ultimi decenni una trasformazione epocale.

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