Così Giovanni Arpino apostrofava Luciano Bianciardi, il mio Luciano Bianciardi, l'autore della Vita agra, l'uomo che già negli anni Sessanta aveva capito tutto dell'Italia che sarebbe stata, ma che non per questo aveva smesso di guardarsi indietro, all'Italia che avrebbe potuto essere con Giuseppe Garibaldi.
Luciano Biancardi, proprio lui, che sapeva che il Risorgimento poteva essere amato non solo per i suoi ideali, ma proprio per le sue storie, affascinanti come un romanzo di avventure, tanto che il suo bambino, che lo ascoltava, non sapeva mai se era Storia, quella con la esse maiuscola, o farina del suo sacco.
Luciano Bianciardi, che venerava Garibaldi, ma proprio per questo andava dicendo che Garibaldi lo avevano fregato facendone un monumento, a cavallo o senza non importa, il problema era che bisognava farne di nuovo persona viva, farlo scendere dal piedistallo per tornare ad abbracciarlo.
Ha scritto tanti libri sul Risorgimento, Luciano Bianciardi, libri che oggi ripropone la casa editrice Ex Cogita. In tempi non facili, per Giuseppe Garibaldi e quindi anche per Luciano Bianciardi - e chissà cosa direbbero i due se sapessero delle statue oltraggiate con i secchi dei rifiuti, dei fantocci bruciati in discoteca, dell'orgoglio padano che ben farebbe a indirizzarsi altrove, per esempio ai 178 bergamaschi che partirono con i Mille.
Però non erano tempi facili nemmeno ai tempi di Luciano, quando parlare di Italia pareva roba da reazionari, quando il Risorgimento era da scuola dei padroni, quando per pensare al Che Guevara si finiva per dimenticare Carlo Pisacane.
E io che sono tra coloro che sul Risorgimento hanno sbadigliato a lungo, chissà, forse solo in questi tempi scopro quanto sia piacevolmente anticonformista e squisitamente autentico ritornare a Garibaldi. E a tutti i suoi.