Lo so, non si dovrebbero nutrire pregiudizi deteriori, non si dovrebbero coltivare preconcetti angusti, non si dovrebbero alimentare preclusioni demagogiche.
Ma è arduo non cascarci, non scandalizzarsi per le scarpe di d’Alema, i pulloverini di Bertinotti, i pusher di carrelli della Finocchiaro, insomma per la fascinazione del lusso e del privilegio che subisce chi dovrebbe riconoscersi nell’austera e scarna rappresentanza dei diseredati e nella testimonianza dei sommersi.
Potrebbe essere invidia, che sembra diventato il sentimento più sociale e diffuso facendo un tutt’uno con l’indignazione. Ma potrebbe invece trattarsi semplicemente di critica nei confronti dell’estesa e diffusa incoerenza, liberata e legittimata talmente da essersi guadagnata la fama di creativa virtù, di festoso anticonformismo, di originale indipendenza da convenzioni e qualunquismi.
Lo dico perché ho sempre nutrito una certa inconfessata diffidenza nei confronti delle presidentesse di associazioni, fondazioni, organizzazioni benemerite e filantropiche, vocate alla beneficenza e al mecenatismo, alla tutela delle arti, alla salvaguardia di specie e categorie umane e non, in stato di bisogno, primi tra tutti la bellezza e il paesaggio. Parlo insomma delle Giuliemarie, ornate di doppi cognomi e tripli fili di perle, un po’ moleste per le loro passioni militanti e la loro indole al perentorio proselitismo, peraltro però utilissime, capaci di mobilitare stuoli di operosi esecutori, raccoglitori di lattine, pulitori di tratti di mare, suonatori di campanelli la domenica mattina, che neanche i testimoni di Geova hanno tanta determinazione, e, soprattutto, formidabili e tenaci promotrici di fund raising, assillanti e instancabili, indomabili e pressanti.
Insostituibili rompiscatole, dunque, spesso dileggiate dalla classe di origine, proprio per la loro ingenua e dissipata dedizione alla “causa” e guardate con sospetto da quelli increduli e circospetti come me.
Ma a pensar male a volte, spesso ci si prende. Per esempio si scopre che la signora Ilaria Borletti Buitoni presidente in carica del Fai, Fondo per l’Ambiente italiano, ha deciso di candidarsi nella lista civica del Presidente Monti. Chi si assomiglia si piglia, si dirà, la signora in questione presenta caratteristiche evidenti di appartenenza e affinità per nascita, matrimonio, frequentazioni alla casta montiana, quella padronale insomma. Quella “pertinenza” che alla resa dei conti fa dimenticare che il governo del suo leader è quello che con più scientifica pervicacia ha fatto del disprezzo per l’ambiente, dell’oltraggio al paesaggio e al patrimonio artistico, della liquidazione dei beni comuni, dell’impoverimento dell’istruzione e dell’umiliazione della ricerca e della cultura, un sistema di gestione della cosa pubblica.
Si, più di Berlusconi, Monti ha mostrato una volontà proterva di mortificazione dei nostri tesori, in modo da offrirli in pegno, in comodato, in svendita a improvvisati mecenati. Si, più di Bondi, Ornaghi ha perseguito la distruzione di quel che restava di un ministero delegato al controllo, alla vigilanza e alla salvaguardia del nostro patrimonio, per realizzare un progetto sistematico di smantellamento delle strutture statali della tutela e di privatizzazione dei beni comuni.
Nel motivare la sua scelta l’impenitente signora fa sfacciata professione di “entrismo” come si diceva un tempo, guardando alle prossime elezioni quale «occasione storica per portare in Parlamento persone capaci di promuovere una fase costituente di riforme strutturali di cui il Paese ha bisogno. Cultura, paesaggio, beni culturali sono ambiti trascurati e maltrattati dall’azione di tutti i precedenti Governi, questo incluso, rendendoli così sempre di più una grande emergenza nazionale». Confermando anche nell’inclinazione alla sopravvalutazione di sé per non dire al delirio di onnipotenza, la sua empatia con il premier nominato e “eletto”, senza elezioni.
Si vede che facevamo bene a pensar male: avevamo ragione a ritenere che per la classe dirigente la cultura sia tema per signore dedite alla beneficenza, che quando scoprono passatempi più gratificanti passano dalla difesa del paesaggio all’apparentamento con Attila, quel Monti che in questo anno, pensando all’Ilva, alla Tav, al Ponte sullo Stretto, alla “conservazione attiva del territorio”, alle smart city all’Aquila e al disprezzo per le geografie ferite del territorio, deve aver dimenticato di essere un autorevole membro del Consiglio di amministrazione del Fai.