Ma chi vorrete biasimare

Da Gabrielederitis @gabriele1948

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Domenica 1° luglio 2012

CAMMINARSI DENTRO (397): Ma chi vorrete biasimare…

Vista da fuori la condizione tossicomanica non appare priva di uscite a chi è saldamente ancorato alla realtà e dispone di soluzioni varie per affrontare i problemi della vita: è forte la tentazione di ‘proiettare’ sull’altro le innumerevoli ‘possibilità’ che si presentano e che appaiono addirittura evidenti. Sembra che tutto ciò che viene offerto nelle strutture del tempo libero sia percepito in eguale misura da tutti, mentre non è così! La realtà appare drammaticamente diversa a una mente che non sia aperta a quella evidenza. Le cose stanno lì, davanti a noi, ma ci accade di non vederle. Stare nella misura di ciò che è possibile fare con le risorse disponibili è la regola di vita dei più. E’ un po’ quello che chiamiamo ‘normalità’.

Per le persone ‘comuni’ che si ritrovino a parlare con un ragazzo che abbia imboccato da tempo la strada della dipendenza non è impresa facile: si tratta di comprendere la situazione bloccata di chi non ha risorse sufficienti per uscire dalle difficoltà in cui si è cacciato o che la vita gli ha riservato. Si potrebbe semplificare il ragionamento dicendo che la ‘mente tossicomanica’ è alterata gravemente, fino al punto che non riesce a percepire ciò che pure esiste, ha una sua consistenza, a causa di un ‘interesse’ che è tutto concentrato ormai sugli effetti procurati dalle sostanze. E gli effetti non sono dati solo dal piacere solitario ricercato: il potere analgesico, lenitivo delle sostanze stupefacenti è noto. Esse svolgono una paradossale funzione ‘terapeutica’, come attestato da tutta la letteratura scientifica.
Ci interessa, invece, orientare lo sguardo verso la tendenza del senso comune a ‘ricordare’ le possibilità di vita che offre l’ambiente, per rendere più chiari i termini di una condizione che non consente (più) di ‘ricordare’, di ‘vedere’ le possibilità che si aprono per noi al mattino, quando usciamo di casa, ma anche prima di farlo. Dire che siamo di fronte a una patologia della libertà può sembrare ‘ideologico’, ma non lo è: non diremo mai a un ragazzo cosa sia la libertà, come se fosse una nostra ‘visione del mondo’, ma, d’altra parte, quando ci si inoltri con lui nella considerazione delle cose possibili da fare per uscire da una condizione dalla quale egli dichiara di voler uscire, affidandosi a noi, dovremo forse rinunciare a mostrargli – con il ricorso all’efficace dissonanza cognitiva data dal confronto tra una vita che si esplica attraverso il godimento di numerose possibilità e quella che ne ‘possiede’ solo una – il possibile come campo della nostra libertà?

Noi finiamo anche per elencare le occasioni e le risorse disponibili nella città, oltre ai modi per avvicinarsi alle persone che non abbiano problemi di sorta, per ‘rimettere in moto la vita’. Interi colloqui vengono dedicati al suggerimento fiducioso di cose che si potrebbero fare – come andare ogni giorno nella Biblioteca comunale a leggere i quotidiani o le riviste esposte per i ‘passanti’ -, per verificare ad ogni esempio che il ragazzo non risponde alle nostre sollecitazioni. Eppure, a noi sembra che si tratti sempre di consigli pratici di facile attuazione! 

Dagli esponenti maggiori della scuola lacaniana abbiamo appreso che “la realtà è piena”: non diremo, allora, che la nostra città offre questa o quella opportunità, come se un paese vicino, senza le nostre ‘occasioni’ per il tempo libero, per le sue piccole dimensioni fosse ‘vuoto’. Anche di quella piccola realtà diremo che è ‘piena’. 

Perché ‘pieno’ e ‘vuoto’ non ci servono per designare una quantità. Dire che la realtà è piena costituisce un potente paradosso dell’esperienza, che ci guida fino alla consapevolezza di come dipenda da noi, solo da noi, ‘prendere’ da essa tutto quello che (ci) offre di buono. Per illustrare meglio cosa sia il ‘pieno’ che mi preme esaltare qui, riferirò un episodio di tanto tempo fa a cui ho assistito, che conserva tutta la sua ‘attualità’. Nel corso di un’assemblea di istituto degli studenti del Biennio della mia scuola – un Liceo Scientifico – i ragazzi si avvicendavano al microfono per elencare tutto ciò che mancava nella città. In sostanza, c’erano buone ragioni per concludere che in essa c’era (c’è) poco… A un certo punto, mi chiese la parola una ragazzina che dal fondo aveva alzato la mano. Si avvicinò e prese subito a dire con voce ferma e sicura, ma con dolcezza: “Non sono d’accordo con nessuno di voi. Anche io con i miei amici mi sono ritrovata spesso a dire che nella nostra piccola città non c’è niente. Fino a quando, un bel giorno, ci siamo guardati tutti in faccia e ci siamo detti: ma come non c’è niente! Ci siamo noi!” - Il seguito del ragionamento è facile da sviluppare. 

Gli antichi avevano detto “Tutto è pieno di dei”. Oggi potremmo dire: “Tutto è pieno di noi”. La realtà è piena di persone dotate di una consapevolezza di sé più o meno grande. Dipende da noi ‘prendere’ da esse ciò di cui abbiamo bisogno per vivere bene.

Se le vicissitudini della nostra esistenza ci portano ‘fuori della realtà’, solo ad essa bisognerà tornare per ritrovare il senso che non riusciamo più a dare alle cose.

Calvin Campbell

Voi che recalcitrate contro il Destino,
ditemi come avviene, su questo pendio
che precipita al fiume,
esposto al sole e al vento del Sud,
come avviene che una pianta
trae dal suolo e dall’aria
del veleno e si fa edera amara,
mentre un’altra dal suolo e dall’aria
trae dolci elisiri e colori,
e prosperano entrambe?
Voi potete biasimare Spoon River per ciò che è:
ma chi vorrete biasimare per la volontà in voi
che si nutre e vi rende gramigna,
dente di leone o verbasco,
e che non sa mai servirsi dell’aria o del suolo
per rendervi gelsomino o wistaria?

EDGAR LEE MASTERS, Antologia di Spoon River

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