Ma è un volo a planare dentro il peggiore Motel,di questa “carretera”,di questa vita-balera… Ovvero… il cinema italiano è ancora vivo e “Lo chiamavano Jeeg Robot”…

Creato il 21 marzo 2016 da Cineclan @cineclan1

E mentre la valigia giace ancora lì vuota, io, Queen in the Angst, Mistress of Guilty Pleasure e procrastrinatrice di professione, sono qui a contenere la mia esaltazione fangirlesca dopo la visione in solitaria di Lo chiamavano Jeeg Robot! Non ricordavo neanche quando è stata l’ultima volta che sono andata al cinema da sola… E io AMO andare al cinema da sola… Non ve l’avevo detto che oltre a tutto quello di cui sopra, ho anche degli attacchi di asocialità niente male? Beh, ora lo sapete… Dicevamo… Lo chiamavano Jeeg Robot è bello, signori… Bello, bello, bello, perché è cinema, completamente e inesorabilmente cinema, è cinema italiano come non se ne vedeva da tempo… Perché è un film di genere finalmente! Perché Gabriele Mainetti mette in scena in un contesto urbano straordinario la tragedia di un eroe ridicolo (se cogliete la citazione, vi amerò di qui all’eternità), vittima degli eventi e di un contesto sociale dal quale è difficile scappare… Ed Enzo Ceccotti corre per quasi tutto il film… Corre per sfuggire alla polizia, corre per sfuggire all’orrore, corre per sfuggire a quelle grandi responsabilità che derivano da grandi poteri… Corre, Enzo Ceccotti, corre incontro al proprio destino, corre incontro al proprio dischiudersi al mondo. Ombroso, introverso, tutto ripiegato su se stesso, il personaggio di Enzo Ceccotti muta anche il fisico di Claudio Santamaria: le spalle ricurve, la pancetta, le mani ruvide e sporche. E poi c’è Alessia (un’inaspettata Ilenia Pastorelli), l’utopia di un mondo di fantasia dove il male esiste, ma può anche essere sconfitto. Il rifugio sicuro dall’orrore della vita vera. Da quella vita di periferia dove le colpe dei padri ricadono sui figli, dove sfuggire a un destino scritto dalla polvere e della terra è quasi impossibile, dove i luna park sono ricordi sbiaditi e abbandonati, ma dalla ruota panoramica il mondo è bellissimo e il vento soffia e si confonde con la risata di una donna rimasta bambina. E c’è un abbraccio che ha il potere di commuovere. Quello di due solitudini che si vedono, si comprendono e si completano. Due solitudini, due orrori, due destini che si cingono in un solo abbraccio che vale più di mille parole… Perché le parole sono fallaci, gli abbracci no. 

E poi c’è lui, Fabio, lo Zingaro, quel villain che riesce a tratti a oscurare il protagonista. Quel villain che tutti hanno paragonato al Joker di Heath Ledger e che invece tantissimo deve al Max di James Woods in C’era una volta in America. C’è la puzza della strada che a qualcuno piace e che qualcun altro vuole togliersi di dosso. C’è la volontà di cambiare il proprio destino, di fare il “salto di qualità”. La volontà di essere grandi contro tutto e tutti, contro i nemici, contro gli amici, contro lo stesso destino. C’è nello Zingaro interpretato da Luca Marinelli quel gusto scenografico dell’eccesso che aveva anche Max. C’è la visione di una vita diversa, il sogno di una vita diversa… Forse solo un’utopia da condire con la colonna sonora giusta.
E poi c’è lui, il cinema italiano che non è ancora morto, che tenta di lottare per uscire da un pigro torpore esistenziale e culturale. Il cinema italiano (forse) ha finalmente capito di dover uscire dalla comfort zone del drammatico “due camere e cucina”, perché in fin dei conti…

Che cos’è un eroe? È un individuo dotato di un grande talento e straordinario coraggio, che sa scegliere il bene al posto del male, che sacrifica se stesso per salvare per gli altri, ma soprattutto… che agisce quando ha tutto da perdere e nulla da guadagnare.


Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :