Ma Mosca non è Kiev (e nemmeno Tbilisi)

Creato il 10 dicembre 2011 da Alessandroronga @alexronga

Kiev: manifestanti in Piazza dell'Indipendenza

La querelle internazionale esplosa tra Mosca e Washington dopo le elezioni di domenica scorsa rischia di oscurare il vero volto delle proteste di piazza iniziate in concomitanza con la comunicazione dei risultati: la lotta contro la corruzione nel Paese dove da anni Russia Unita decide il bello e il cattivo tempo. La batosta elettorale subìta dal partito di Putin il 4 dicembre ha come causa prevalente quella di aver sottovalutato il malcontento di ampie fasce della società nei confronti di amministratori troppo vicini a lobby e potentati economici, che in questi anni hanno approfittato del loro potere per arricchirsi in maniera, diciamo, poco trasparente: un esempio eclatante è stato Jurij Luzhkov, fedelissimo di Putin e potente sindaco di Mosca dal 1992 al 2010, la cui consorte Elena Baturina, imprenditrice del mattone, avrebbe accumulato un patrimonio da 3 miliardi di dollari grazie agli appalti vinti con l’aiuto del marito.

Il vero problema della giovane e immatura democrazia Russia è rappresentato dalle troppe diseguaglianze nella società, non solo dal punto di vista economico, quanto anche da quello delle pari opportunità: la contestazione esplosa in questi giorni, più che orientata verso il Potere in se stesso, sembra diretta verso l’arroganza di questo Potere, che esclude dalla crescita economica del Paese chi di quel Potere non ne fa parte. E la diffusione sul web di filmati e post riguardanti brogli elettorali ha fatto da cassa di risonanza a questa rabbia repressa. Ma da qui a ricondurre tutto ciò all’inizio di una “rivoluzione colorata” anche in Russia ce ne corre: ci sono troppi aspetti che rendono Mosca diversa da Kiev, Tbilisi e Bishkek.

Le Rivoluzioni colorate, o dei Fiori, sono state un fenomeno politico durato lo spazio di un quinquennio, esploso improvvisamente tra il 2003 e il 2005 in alcuni paesi dell’ex Urss, dove Mosca continuava a esercitare una storica influenza: in Georgia nel 2003 con la Rivoluzione delle Rose guidata da Mikeil Saakhašvili, in Ucraina nel 2004 con quella Arancio di Viktor Jušcenko, e in Kirghizistan nel 2005 con quella dei Tulipani avviata da Kurmanbek Bakiev. Dietro questi uomini, che sicuramente avevano avuto il merito di fiutare il malcontento che serpeggiava nei paesi dove avevano avuto luogo, c’era però anche un indiretto sostegno del Dipartimento di Stato americano e del National Security Council, che consentì ai vari movimenti colorati di disporre di mass-media, esperti di marketing politico, e soprattutto cospicui fondi erogati da alcune fondazioni vicine all’amministrazione Bush e da ONG legate ai partiti Democratico e Repubblicano. Ma proprio perchè le Rivoluzioni dei Fiori furono un fenomeno di marketing, più che un fenomeno politico, sono appassite come i fiori che si erano scelte (molto commercialmente, va detto) come simbolo: l’ucraino Jušcenko è stato sonoramente sconfitto alle presidenziali dello scorso anno, ottenendo appena il 6% dei voti, mentre il kirghizo Bakiev è stato defenestrato ad aprile 2010 da un popolo infuriato contro il nepotismo e la corruzione che circondavano il suo regime. A restare ancora in sella è il georgiano Saakhašvili, ma comunque indebolito dopo la sconfitta militare nella guerra del 2008 contro la Russia e costretto a tener testa ad un’ opposizione agguerritissima che gli contesta la continua violazione delle regole democratiche e ha minacciato di portare la “primavera araba” a Tbilisi.

Lo scenario colorato si appresta a sbarcare anche per Mosca? A dire il vero, era stato proprio Putin, pochi giorni prima del voto, a sollevare l’ipotesi che gli Usa stessero preparando a ripetere in Russia la stessa azione compiuta in Ucraina, Georgia e Kirghizistan. E ha ribadito la sua convinzione dopo che il senatore John McCain, ex sfidante repubblicano di Obama nel 2008, ha tweetato un post auspicando una “primavera araba” in Russia, e sempre dopo che il Segretario di Stato Hillary Clinton ha definito le elezioni russe “nè libere, nè trasparenti”.
C’è un aspetto, effettivamente, che riporta alle situazioni sopra descritte, ovvero quello che le Rivoluzioni dei Fiori hanno avuto inizio subito dopo una tornata elettorale nazionale. Sia in Georgia, che in Ucraina e in Kirghizistan, i “movimenti colorati” hanno contestato la vittoria dei partiti filorussi presenti al governo denunciando brogli. Brogli che ci furono sì, ma dal peso, è stato poi appurato, decisamente insignificante ai fini dell’esito del voto. Ma tanto bastava per delegittimare l’avversario e insinuare nella popolazione dubbi e timori di una possibile perdita di autonomia per mano russa.
In un articolo pubblicato nel 2008 dal quotidiano britannico The Independent veniva descritto minuziosamente l’allestimento dall’esterno delle Rivoluzioni colorate da parte di organizzazioni non governative legate a doppio filo ai neocon di Bush jr: si partiva con l’invio di esperti di comunicazione che abilmente sceglievano un simbolo accattivante per i movimenti, poi passavano al rafforzamento dei media a loro legati, quindi alla realizzazione di sondaggi ed exit-poll che davano sempre vincente il candidato “colorato”. Dopo che nei giorni immediatamente precedenti il voto veniva più volte evocato il fantasma del voto truccato, l’operazione Rivoluzione dei Fiori scattava puntualmente poche ore dopo la chiusura dei seggi, dinanzi ai primi exit-poll e alle prime, puntuali accuse di irregolarità: i movimenti colorati, facendo sempre leva sull’esistenza di brogli, diffondevano i “loro” exit poll, che mostravano quale fosse l’esatta realtà del voto e come il governo amico di Mosca stesse tentando di alterare la volontà popolare. A quel punto, i movimenti colorati si erigevano a difensori della democrazia e dell’indipendenza nazionale e il gioco era fatto.

Considerando questo “dietro le quinte” con il beneficio d’inventario, resta però il fatto che in Georgia, Ucraina e Kirghizistan il dopo-elezioni è andato proprio come descritto dal giornale inglese. In Russia sta accadendo lo stesso? Se le contestazioni di piazza iniziate dalla sera del 4 dicembre non hanno come obiettivo la diffusa corruzione ma esclusivamente le irregolarità commesse in fase di votazione, qualche sospetto sulla natura esogena di queste manifestazioni può nascere. Ed è proprio l’oggetto del contendere a lasciare perplessi: i brogli.

Pur essendoci stati, questi non dovrebbero aver condizionato più di tanto il voto: già prima di domenica scorsa i sondaggi dell’Istituto Statistico Levada (la cui indipendenza ed attendibilità sono riconosciute anche dalle cancellerie occidentali) davano Russia Unita intorno al 56%, e il fatto poi che le urne abbiano consegnato al Paese un partito di maggioranza sceso addirittura sotto l’umiliante soglia del 50% dovrebbe far pensare che le irregolarità hanno avuto un’incidenza decisamente minima sulle elezioni parlamentari. Putin potrebbe aver ragione a supporre un’azione destabilizzante proveniente da fuori, se questi brogli vengono presentati come un qualcosa che avrebbe alterato significativamente la composizione della Duma a favore del Cremlino, quando invece adesso la Russia rischia paradossalmente l’ingovernabilità proprio per questo flop di Russia Unita.

Dall’altro lato c’è invece un altro aspetto che smentisce le ipotesi di Putin su un presunto complotto occidentale, ed è il fatto che in Russia manca il “cavallo vincente” su cui una forza straniera potrebbe riversare risorse economiche e tecniche. Le Rivoluzioni dei Fiori avevano come punto focale il supporto ad un candidato popolare e di provata fede filo-occidentale, come poteva essere un Saakhašvili (laureatosi peraltro negli Usa) o uno Jušcenko: ma in Russia un politico che includa in sè queste caratteristiche ad oggi non c’è. Ed è impensabile che l’Amministrazione Obama abbia deciso, o decida, di sostenere il comunista Zjuganov, che pure gode di un’ampia popolarità e che qualcuno ha proposto come candidato presidenziale unico dell’opposizione anti-Putin alle elezioni di marzo: francamente, vedere gli Usa sostenere un nostalgico dell’Urss a vent’anni dall’ammainabandiera con falce e martello farebbe ridere, oltre che costare a Obama la rielezione alla Casa Bianca. Anche se esiste un precedente molto illustre, addirittura la Rivoluzione d’Ottobre del 1917, quando la Germania imperiale diede aiuti logistici (probabilmente anche dei finanziamenti occulti) a Lenin: non perchè il Kaiser Guglielmo II fosse un accanito lettore delle teorie del suo connazionale Karl Marx, ma perchè in piena Prima Guerra Mondiale una destabilizzazione della Russia zarista avrebbe contribuito a dare una svolta alle sorti del conflitto.

Ma oggi, nonostante il fatto che rispetto agli anni Novanta i punti di contrasto con Mosca siano aumentati, agli Usa e all’Europa in crisi serve una Russia stabile, politicamente e soprattutto economicamente. L’aumento, previsto da tutti i principali outlook economici internazionali, del numero di cittadini russi fruitori di beni di consumo occidentali renderà nel prossimo decennio la Russia uno dei principali mercati di sbocco per le imprese americane, europee ed italiane. Una manna dal cielo, per un Occidente che, quando è necessario, sa bene quanto servano alcune sane scelte di realpolitik.

Approfondimenti
Le Rivoluzioni dei Fiori appassiscono
(da Il Punto n.19 del 7 maggio 2010)


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