Lo so, mi farò dei nemici. Ma pensavo: aprire un gruppo su Facebook ha
lo stesso valore sociale delle sputacchiere nei saloon del Far West.
Uno apre una pagina, un gruppo, un profilo, esattamente come fanno
alcune altre migliaia di persone e in meno di un minuto le stesse
migliaia di persone cominciano a vomitarci dentro i loro affanni, i loro
pensieri per lo più marginali, i loro mal di pancia o la notizia che il
loro gatto finalmente ha vomitato (a sua volta?) una palla di pelo. Che
c'è di sociale in questo, se non la condivisione di un fallimento,
quello dell'incapacità di usare uno strumento (seppure nei limiti che ti
impongono i capitalisti possessori del mezzo) per fini che siano meno
che futili (a meno che ovviamente non si debba organizzare una
rivoluzione in un paese di merda tipo....l'Italia?)? Finchè il giochetto
è puro entertainement e avete tempo da perdere, la cosa può anche
andare, insieme a tutte le altre menate delle foto, dei giochini, delle
applicazioni, dei baci, dei mazzi di fiori, degli auguri, delle torte
virtuali e compagnia cantante. Ma per favore, non mi venite fuori con la
storia dell'interesse comune, della comunità,
specialmente se si tratta della poesia. Che c'entra la poesia con tutto
questo? Che tipo di conforto (esatto, conforto) cerchiamo con il
pubblicare la nostra poesiola in uno spazio aperto che attraversiamo con
la velocità di chi ha fretta di trovare il gabinetto? Il saluto degli
astanti? Il "mi piace" che per comodità (un click contro otto caratteri
spazio compreso, vuoi mettere) è stato trasformato in un bottone? Le
cento porte aperte in cui entri, depositi il tuo frutto, per poi passare
la giornata a spulciare le settecento notifiche "anche X ha
commentato..." alla ricerca di qualcuno che parli bene di te? Che poi ti
tocca rigraziare Sara, Mara, Clara e anche Manrico, Enrico e Lodovico?
Vogliamo renderci conto che tutto, in questo ambiente, è stato
depotenziato, per diverse ragioni? In parte semplicemente perchè "non
c'è tempo per". Non c'è tempo per leggere tutto, ovviamente, ma non c'è
tempo nemmeno per scrivere qualche parola a giustificazione di quel "mi
piace" (ma è interessante notare l'assenza di un bottone che dice "non
mi piace", a suo modo un'altra bella comodità), non c'è tempo per
pensare, per farsi venire un'idea, per esempio su come usare Facebook
come un'installazione artistica o in modo un pò debordiano,
situazionista, più dirompente. L'altra ragione di depotenziamento è che
su Facebook non c'è spazio che non sia frantumato, parcellizzato,
ridotto alle dimensioni di un cracker in bocca a un criceto. Mettere
insieme un mosaico attendibile è impossibile, se non forse costringendo
gli amici a convergere sul tuo "prodotto" taggandoli spietatamente.
Purtroppo gli altri fanno altrettanto, e siamo da capo. Facebook è
depotenziato semplicemente perchè è distraente, non c'è nessuno strumento che sia davvero condivisibile.
E come insieme di individualismi, paradossalmente si adatta alla
perfezione alla "poesia" (sì, mettiamola per un momento tra virgolette).
Del resto Facebook è una rappresentazione reticolare della poesia così
come la intendono troppe persone. E cioè un qualcosa che viene dal
profondo, sale sale sale spinto da una certa "urgenza" (quante volte
l'avete sentita questa parola?) finchè finalmente esce alla luce, viene
partorito (se lo si guarda benevolmente) o viene vomitato (se lo si
guarda, nella gran parte dei casi, realisticamente). Estroflettendo il
"prodotto" si spera sempre che a contatto con l'aria subisca un processo
chimico che lo migliora, come avviene con il vino. Ognuno ha diritto di
sperare quel che vuole, certo. Inoltre Facebook non solo è democratico,
è anche gratis, non tanto perchè non costa niente in soldi ma perchè non costa niente in fatica, al contrario ad esempio di un blog. Non costa niente iscriversi ad un gruppo e scaricare in bacheca il proprio parto acriticamente,
senza ripensamenti perchè Facebook è veloce e non c'è tempo di farsi
venire qualche dubbio autocritico. Si sposta la responsabilità sugli
"amici", ma gli amici come abbiamo visto non hanno tempo nemmeno per
essere sinceri perchè bisognerebbe superare il doppio scoglio del
pensiero e dell'onestà intellettuale, e quindi non c'è riscontro vero,
non c'è discernimento. E siamo da capo.
Intendiamoci, non ho niente di personale contro questa poesia
"liquida", che deborda e come l'acqua occupa tutti gli interstizi e gli
spazi che trova, tutti gli anfratti che non siano minimamente moderati.
Se non fosse che Facebook ha fatto da accelerante di una entropia che
era già presente in internet, aumentando in maniera esponenziale la
velocità degli "interventi" e diminuendo in modo direttamente
proporzionale il tempo di permanenza sulla "notizia". Siamo tutti
diventati campioni della lettura veloce, quando va bene. Ci siamo sempre
lamentati che ci sono troppi scrittori e quasi nessun lettore, di
poesia in particolare. Ma se c'è qualcosa che farà fuori definitivamente
la lettura infilandola giù per il nostro bel vomitatoio, state sicuri
che quello è Facebook (e il suo fratellino, ancora più subatomico,
Twitter). Non si tratta nemmeno più di quel sovraccarico informativo,
quel "information overload" di cui ho parlato in altre occasioni.
Quello, se lo conosci lo eviti. Qui si tratta di assuefazione (quasi in
senso farmacologico) e temo che sia assuefazione al fast food poetico,
al frammento che specie nei gruppi aperti altre decine di frammenti
spingono inesorabilmente fuori scena nel giro (provare per credere) di
qualche minuto. Almeno in un blog se non leggi un post oggi te lo puoi
leggere domani. Te lo puoi addirittura rileggere!!. Siamo alla junk poetry. Siamo - temo - all'assuefazione al brutto. Va bene, basta non diventarne dipendenti.