Vale la pena un viaggio a Trieste, al Verdi. Sulla scena del teatro neoclassico lo spettacolo del Macbeth è affascinante. La musica verdiana cupa, triste e dolorosa piange dal 1847, quando l’opera fu composta per il teatro fiorentino La Pergola. Racconta, riprendendola dal dramma di Shakespeare, la truce storia di Macbeth di Scozia, della sua brama di potere, che lo porta ad assassinare il re Duncano con l’aiuto della moglie, la Lady dal cuore di ferro, vero motore dell’ambizione sfrenata verso il potere. È una storia di uccisioni, di fantasmi, di streghe, fino alla morte e alla follia dei due stessi protagonisti. La sete di dominio semina morte anche su chi la insegue. Quanto mai attuale.
Per commentare una musica potente e indagatrice come quella di Verdi, Brockhaus s’è inventato uno spettacolo tetro e sanguinolento, ferrigno, che a tratti può ricordare i film di Orson Welles e Kurosawa. I costumi di Nanà Cecchi sono saioni grigi medievali, tipici di un’epoca di ferro. Benito Leonori ritrova le scene di Josef Svoboda e le ripropone come teli grigiastri che si alzano, si gonfiano e si sgonfiano, dando la sensazione che l’azione si svolga in una atmosfera nebbiosa, quella del delitto che agisce invisibile. Gli attori hanno il volto ricoperto di un cerone pallido, occhi grandi e cerchiati. Sono maschere spettrali della morte che si aggira e da cui è necessario difendersi, maschere dell’orrore. Macbeth e la sua Lady primeggiano e vengono gigantificati dalle proiezioni come soggetti in preda al male, ma anche al rimorso e alla morte.
Dimitra Thedossiou è la Lady: cantante di razza, ha la voce acida, metallica (ricorda in alcuni punti la Callas) richiesta da Verdi. Brockhaus la fa avvoltolare per terra, emergere dal coro delle streghe all’inizio, la rende allucinata nella scena della follia, nella notte del sonnambulismo, quando è perseguita dal rimorso eppure non sembra pentirsi, visto che le streghe (il male) l’accompagnano sino alla fine. Canta con voce spezzata, quasi parlata e si sovrappone – anche fisicamente – a Macbeth, che è l’argentino Fabiàn Veloz, giovane e potente voce di baritono, attore credibile, al suo debutto nel ruolo, scelto con felice intuizione dal sovrintendente Claudio Orazi.
La regia, se fa muovere come statue d’orrore i due protagonisti, fa invece raggelare il coro – cortigiani o popolo –, fa mimare i movimenti nella scena di battaglia come un “fermo immagine” cinematografico. Così è lo stupore per la forza del dolore, quello che Brockhaus vuol far passare al pubblico e che poi la musica sublima con quel senso di pietà per chi soffre che è tipico di Verdi.
Dirige l’orchestra del teatro, molto buona e che sa far cantare gli strumenti, il milanese Giampaolo Bisanti, che ha curato fino alla perfezione i passaggi di una musica che seduce per la sua verità, ottenendo sonorità squillanti (talora però gli ottoni tendono a surclassare gli archi), sfumature strumentali del clarinetto e dando “tempi” che sottolineano l’azione, ora con scatti feroci, ora con esplosioni veementi. Bisanti è direttore scrupoloso – ha operato solo il taglio del balletto (peccato, però) –, con un gran bel gesto e trascina gli interpreti. Di loro è giusto segnalare anche il tenore albanese Armaldo Kllogjeri, belle voce luminosa, e il basso Paolo Battaglia, un Banco molto efficace.
E poi il coro intonato e in gran forma attoriale, curato da Paolo Vero. Un bello spettacolo, alla presenza di folti gruppi giovanili.
Articolo di Mario Dal Bello
fonte: Città Nuova