“Macchie di leopardo” di Elyangela Giannoni Ed. Vertigo

Creato il 03 aprile 2014 da Viadellebelledonne

 

A briglia sciolta, in una sequenza apparentemente casuale come le macchie sul manto di un leopardo, così Elyangela Giannoni lascia scivolare la penna. Non c’è altra regola che quella di comunicare, di trasmettere dei concetti. Identificarli e decodificarli sarà, invece, compito del lettore. A volte in prosa, a volte in versi, tutto ciò che cattura l’attenzione dell’autrice viene preso, trasformato e restituito in una forma più preziosa, più sfaccettata, interessante ed affascinante. Divisa in cinque parti tematiche.

PARTE SECONDA

Sani e salvi

Sono cresciuta in un ambiente cattolico; ero fedele ─ anche troppo ─ alla dottrina ma dentro mi chiedevo: che vuol dire salvezza? Salvezza da che?
Da vecchia ho sentito da maestri buddisti la parola “sanità” (sanity) nell’accezione che noi usiamo quando diciamo “sanità mentale” o meglio “naturalezza”, “equilibrio”, “mente sana in un corpo sano”. Così mi sono chiesta: non sono per caso salvezza e sanità due parole che indicano la stessa cosa? E mi sono messa a cercare l’origine della parola salvezza.
È l’antico saluto romano SALVE! che significa “stai bene!” e il corrispondente nome SALUS, “salute, sanità” ma anche “salvezza, scampo”.
Poi mi è affiorata nella memoria in modo vago una frase che nel vangelo di Marco suona così: “Le persone sane non hanno bisogno del medico, ne hanno bisogno i malati”.
Da qui è emersa la figura del guaritore, così sono andata a cercare casi di guarigione nei vangeli per vedere quali parole vengono usate.
In questa ricerca, il campo si è allargato da sé perché si è presentato un intreccio inaspettato tra malattia, guarigione e cause della malattia in Marco, 2, 1-17, in cui si racconta la guarigione di un uomo paralizzato che viene calato dal tetto di una casa, dopo che i suoi parenti hanno tolto un po’ di tegole, per ottenere di essere guarito da Gesù Cristo che era in quella casa piena di gente. Le parole del guaritore sono: “I tuoi peccati ti sono perdonati, alzati e cammina!”. E a quelli tra i presenti che commentano scandalizzati le sue parole chiede: “È più facile dire ‘Ti sono perdonati i tuoi peccati’ oppure ‘Alzati e cammina’?
Se Cristo prima dice che sono perdonati i peccati dell’uomo paralizzato e poi gli dice di alzarsi perché è già guarito, mi pare che la malattia venga sentita qui come effetto di una disarmonia e dal mancato rapporto dell’uomo con la sua natura. Questo è il senso della parola “peccato” in greco, che è AMARTIA (fallo, errore), parallela al verbo AMARTANEIN (sbagliare il tiro, mancare il bersaglio, perdere, deviare).
In altri casi di guarigione nei vangeli, questa avviene per merito della fede della persona stessa che è malata. “Figlia, la tua fede ti ha guarito. Vai per la tua strada in pace” sono le parole del Cristo alla donna che perdeva sangue da più di dieci anni e quel giorno, saputo che stava passando nella città il guaritore, disse a se stessa: “Basta che riesca a toccare un punto del suo vestito e sarò guarita”. E lei, passando poco per volta tra una persona e l’altra, pigiata all’inverosimile in mezzo a una folla che riempiva tutta la piazza, riuscì ad arrivare vicino al Cristo e a toccarlo. E lui disse agli amici di aver sentito qualcosa, come se se ne andasse da lui un flusso di energia in una direzione. Questo è presentato come un esempio della potenza della fede. È come la potenza del cane che, mentre mangi, mette la testa sotto il tuo braccio e aspetta un pezzetto di cibo.
Il paragone con i cani non è mio ma di una donna straniera che incontra Gesù e, sapendo di essere un’immigrata in terra d’Israele, parla di se stessa come dei cani che si accontentano di mangiare le briciole che cadono dalla tavola degli umani.
“La tua fede ti ha salvato” sono le parole che ricorrono in altre guarigioni di ciechi che riacquistano la vista.
Anche in un altro caso di guarigione, quello dei dieci lebbrosi, si trovano le parole “La tua fede ti ha salvato”. Il verbo greco SOZEIN, che deriva dall’aggettivo SOS (sano e salvo, incolume), significa “rendere sano” o “conservare in buono stato, salvare, liberare, sciogliere”. La traduzione quindi può essere anche “È stata la tua fede che ti ha guarito”.
Sulla fede è fondato pure il racconto della guarigione del bimbo malato di epilessia. Il padre lo ha portato perché ha già provato di tutto, e ora che ha sentito parlare di un guaritore, vuole fare un ultimo tentativo. Rimane però deluso per l’incertezza e l’incapacità degli amici di Gesù di fronte al caso del bimbo. Loro stessi non hanno fiducia che il bimbo possa essere guarito e non riescono a far niente.
Allora il padre si spinge con il suo bimbo tra la folla fino a Gesù e gli dice: “Se puoi fare qualcosa, aiutaci!”. La risposta è immediata: “Se puoi? Tutto è possibile a chi ha fede”. E il padre: “Io ho fede! Vieni in aiuto alla mia mancanza di fede!”.
Sembra una contraddizione ma non è così. Negli umani fiducia e dubbio crescono insieme come le erbe del campo .

 PARTE TERZA

Remo nell’acqua

 
Odio e amo. Perché faccio questo
forse tu vuoi sapere. Non lo so, ma sento
che mi succede e mi tormento.
(Catullo)
L’odio altro non è che il riflesso dell’amore nel gel delle cellule, sotto la membrana sottile che le separa l’una dall’altra, così come il remo che attraversa il pelo dell’acqua appare spezzato.

L’odio è l’immagine rovesciata di un amore malato, dove chi ama rivolge l’intensità della sua capacità di amare verso se stesso e verso le creature che gli piacciono. Siccome tutta questa forza si abbatte su un terreno limitato e soffre la mancanza di spazio e di ossigeno, nell’individuo travolto dall’inondazione d’amore scaturisce l’odio come un pus. È come se l’amore, forza interpersonale e relazionale per sua natura, si limitasse comprimendosi in un piccolo punto che a causa di questo accumulo di energia s’infiamma e s’infetta. L’individuo malato di confinamento d’amore mette se stesso al centro di tutte le situazioni e di tutte le esistenze, fingendo a se stesso di non sapere che il centro è un posto vuoto dove nessuno si siede.

Il centro è un intervallo tra momenti
labili e fuggitivi
per questo si muove a seconda
del dilatarsi e dello scoppiare
di bolle di sapone
non puoi dire: è qui
che subito scivola via
aprendosi nell’aria un varco
più veloce della luce.

Così non c’è mai una brutta fine.

L’individuo malato nella sua stessa pelle
scavato dal suo stesso fuoco
possa arrendersi e adagiare
il suo sacco d’ossi sulla riva
del mare in bonaccia
sanare le sue ferite
vestirsi di un abito nuovo
fresco dei colori d’aurora.

L’odio, in realtà, nasce dall’amore.
Vorresti che le persone
(e fra queste te stesso)
fossero sane, felici, armoniose
virtuose, intelligenti.
Sorge la rabbia dal desiderio
disatteso .

PARTE QUARTA

Mucca che rumina

Di ogni verità è vero anche il contrario.
(Hermann Hesse, Siddharta)

Quando diciamo “vero”, lo affermiamo in contrapposizione a qualcosa che giudichiamo “falso”; lo diciamo in relazione a questo qualcosa, facendo un confronto.

Allo stesso modo la nostra mente gioca a dama con le pedine belle e brutte.
È una scacchiera che si riempie e si svuota ogni istante, aperta a infinite possibilità: una partita fra buono e cattivo ad esempio, rappresentati rispettivamente da pedine bianche e pedine nere. Naturalmente si possono scambiare i colori, attribuendo la cattiveria alle bianche e la bontà alle nere, capovolgendo così i risultati.

Sarebbe curioso annotare i vari significati che, nelle diverse situazioni, attribuiamo alla parola “buono” e al suo rimorchio omologato “cattivo”. Per gli adulti, buono è il bimbo docile, tranquillo, che dove lo metti sta; (lo stesso vale per gli animali addomesticati dagli umani). Da bimba dovevo ammettere la mia colpa di aver “fatto arrabbiare” i genitori. Buono è considerato, d’altro canto, chi non si arrabbia con i suoi simili, li perdona se gli hanno fatto un torto, condivide quello che ha, è disponibile alle richieste di aiuto; il tutto fino ad un certo limite, oltrepassato il quale si scivola non si sa quando e come nel “troppo buono” alla cui temperatura il composto vira e degenera, almeno secondo la competenza degli esperti.

Lorenzo, tre anni, è grande in confronto ad Andrea, cinque mesi, appena arrivato all’asilo nido. Eppure Lorenzo è piccolo in confronto a Lucia, sei anni.

Filomena è generosa in tutto ciò che le dà l’opportunità di essere utile e capace di risollevare i suoi simili, o meglio, quelli fra i suoi simili che si trovano con lei sulla stessa lunghezza d’onda; con altri è avara e va avanti per la sua strada senza sentire niente: non ha tempo.

Su “forte“ e “debole” ho cominciato a rimuginare fin da ragazzina, chiedendomi quale dei due genitori fosse più forte (già il bisogno di paragoni, perché?) e in che cosa. L’altalena è durata a lungo e tuttora non saprei rispondere, forse proprio perché è la domanda che è sbagliata.

Lo stesso coraggio di ammettere la propria debolezza in qualcosa ci dà la forza di vivere senza dare troppa importanza a cosa possono pensare di noi gli “altri”.
Forse è questo il senso dell’umiltà, essere a livello della terra, essere realistici e onesti con noi stessi

Ritornando all’inizio di questo ruminare mi chiedo: la verità è di tutti o appartiene a qualcuno?

Non è di tutti perché gran parte degli umani non sa che cosa hanno deciso sulle loro teste quei pochi che sono riusciti a prendere il potere.

Non è di tutti perché quando tutti vogliono sapere da chi è stato ucciso un personaggio determinato a scoprire la verità, pur sapendo di essere a rischio, ostacoli si alzano a nascondere, camuffare, banalizzare gli indizi, rendendo pericoloso l’investigare. È calpestata la dignità degli umani quando essi vengono ricattati con la paura o addormentati da un oppio di parole che annebbia l’intelligenza.

Non è di tutti perché sorgono discussioni e scoppiano guerre quando gli umani non si trovano d’accordo su quella che ognuno ritiene verità. Diciamo: “Il mio amico, i miei animali, i miei terreni, le mie cose, le mie creazioni, le mie idee” ma spesso non abbiamo il coraggio di riconoscere: “Questa è la mia verità che può non valere per uno dei miei simili”, o, più realisticamente: “Questa è la mia versione dei fatti”.

In effetti, può la verità appartenere a qualcuno? E quando questo individuo è morto, dov’è la sua verità? Forse al gruppo di individui a cui lui l’ha trasmessa? Ma una verità che un gruppo ritiene tale, può non essere riconosciuta da altri gruppi. Del resto il concetto stesso di “verità” sembrerebbe essere qualcosa che tutti hanno la possibilità di venire a sapere, alla luce del sole.

Ma chi stabilisce che una comunicazione è vera? Se questa riguarda un fatto che si può ricostruire sulla base di dati riscontrabili o un problema pratico di cui possiamo individuare le cause, basterebbe un gruppo di persone oneste, attente e preparate, se non ci fossero ostacoli tesi a impedire la ricerca. Se invece riguarda che cosa è bene e che cosa è male fra gli umani e le punizioni per chi agisce “male”, se mira ad insegnare qual è la sorte di ogni cosa dopo la sua fine, allora nessuno può pretendere di porre le sue risposte come verità.

La verità può non essere fatta di parole, se le parole possono essere fonte di malintesi; può essere fatta di silenzio negli occhi che non hanno paura di essere visti, di azioni o di non azioni alla luce del sole.

L’origine di “vero” in greco è “non nascosto” (a-lethes).

Quello che so è che sono ignorante.
(Socrate)
Puoi ingannare tutti ma non te stesso

I cheated myself, like I knew.
Ho ingannato me stessa e lo sapevo.
(Amy Winehouse, You know I’m no good)

Si va avanti con tanti sbagli
e qualcosa di indovinato.
(Giselda Artana Marchesi)

La vecchia ruggine dell’ansia muore
ogni volta che sale il coraggio
di mostrare se stessi
senza supporto,

perché non siamo così importanti
da annientarci per la paura di esistere

e non siamo separati,
siamo solo vestiti
di maschere, ruoli, convenzioni, paure
vietati di accettare un invito a festa
senza appuntamento.

PARTE QUINTA

Bonalaccia

C’è una fantastica rispondenza, sempre.
(Chogyam Trungpa, Preludio al film Zeitgeist)

Celeste è questa
corrispondenza d’amorosi sensi.
(Ugo Foscolo, Dei Sepolcri, 29-30)
La schiava bambina

Sia a te lieve la terra.
(Marziale)

Una rete di luce si muove sulla sabbia
chiara del basso fondo, quasi a riva,
una grazia leggera che non chiede,
Un tepore nel cuore così lieve
─ basta un niente a freddarlo ─
riemerge, ancora vivo.

Così la terra è lieve sui germogli.

Carezzare coi piedi la terra
che ci sopporta.

da “Macchie di leopardo” di Elyangela Giannoni Ed. Vertigo

Elyangela Giannoni è nata a Portoferraio (Isola d’Elba) dove vive. Ex insegnante di Lettere, esordisce con questo poemetto in prosa e in poesia di intensa spiritualità, in cui le personali vicende di gioia e di dolore diventano paradigma dell’Esistenza e dei suoi chiaroscuri.



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