Buche e sobbalzi. Gente che mi fissa e sorride, senza distogliere lo sguardo quando ricambio il contatto visivo. Prossimità fisica con chi condivide il veicolo con me. Un bambino piccolo della coppia seduta nei sedili dietro al mio si mette a giocare con i miei capelli. Ho i piedi appoggiati su un sacco di patate che qualche contadino sta portando in uno dei villaggi disseminati sui monti.
Questo è già il terzo autobus della giornata, quello che mi porterà finalmente alla prossima meta del mio viaggio. Sono partita la mattina presto da Kaili, e alle cinque del pomeriggio non sono ancora arrivata. Sulla mappa i due puntini sembrano vicini, ma la condizione delle strade non aiuta a rendere il percorso rapido e agevole; soprattutto nell’ultimo tratto di strada, dove l’autobus si è inerpicato su una stradina di montagna decisamente accidentata. Ogni tanto l'autista si ferma per far salire nuovi passeggeri. Non esistono fermate vere e proprie, se non le stazioni di partenza e di arrivo. Dopo due ore di strada la vettura è strapiena di persone e merci: materiale da costruzione, cibo, vestiti, pacchi e scatole di cartone accattastate sia dentro al veicolo che sul tettuccio. Anche il mio zaino è stato messo lì sopra, e ad ogni curva spero che non cada e venga dimenticato lungo la strada. L’area in cui siamo è molto lontana dai centri urbani. Dopo aver attraversato qualche villaggio senza mai incontrare macchine sul nostro cammino, imbocchiamo una stradina polverosa costeggiata da edifici in legno a due piani. I miei compagni di viaggio iniziano a raggruppare le proprie cose, e capisco che siamo arrivati a destinazione. Dopo poco l’autobus si ferma in un piazzale, e tutti iniziano a scendere. Siamo arrivati a Rongjiang.
Chiedo all’autista come tornare il giorno dopo a Leishan, la cittadina da cui è partito l’autobus che ci ha portati qui, e mi informo sull’esistenza di un albergo. Sono fortunata, ce n’è uno. Lascio in fretta il mio zaino, pago per una notte, e riscendo per dare un’occhiata a questo nuovo mondo fatto di due strade non asfaltate e dai suoi abitanti.
Appena scesa nel villaggio, inizio a sentire l’attenzione di tutti puntata addosso, ma non mi importa: in Cina il pudore che ci fa abbassare gli occhi quando si incrocia lo sguardo di qualcuno non esiste, anzi. Si tende a catturare lo sguardo, a far notare la curiosità, ad esprimere lo stupore per la diversità che si ha di fronte. Quando si arriva in Cina, l’attenzione manifesta della gente per gli stranieri è una delle cose che colpiscono di più. C’è a chi da fastidio essere fotografati sull’autobus o al ristorante mentre si mangia, essere costantemente additati e salutati per strada, ma io ho stretto un tacito patto con la popolazione cinese: mi lascerò fotografare tutte le volte che lo vorranno e in cambio io potrò ficcare il naso in giro.
Finora questo accordo sta andando benissimo.
E così, macchina fotografica in mano, cerco di orientarmi in questo villaggio: attraverso un ponte di legno, vedo un gruppo di case e mi siedo fuori da una di esse per guardarmi intorno. Non devo aspettare molto perché cinque o sei bambini si mettano a giocare davanti a me. Inizio a fargli delle foto, e loro si avvicinano per vedere che cosa ho appena scattato. I bambini sono seguiti dalle madri, e nel giro di pochi minuti c’è un capannello di gente intorno a me. Mi chiedono chi sono, da dove vengo, se sono da sola o con qualcuno. Cerco di parlare un po’ con loro, ma è difficile capire appieno il cinese di questa regione. Dopo poco i bambini si stufano e si allontanano a giocare e le madri tornano dentro le case. Si fa buio, e me ne vado anch’io verso la guest house.
I gestori stanno mangiando nell’ingresso al piano terra, dove è allestito anche un minuscolo negozio di alimentari. Mi invitano a cenare con loro, e non me lo faccio ripetere. La guest house è gestita da una famiglia, e il padre, che avrà una cinquantina d'anni, è anche il maestro della scuola elementare. É di etnia
Han, il gruppo maggioritario nella popolazione cinese. Parla cinese standard, quindi riusciamo ad intenderci: mi spiega che questo è un villaggio Dong, in cui abita qualche famiglia Miao. Loro sono gli unici Han della zona. Racconta che le cose stanno cambiando in fretta anche lì: c’è la TV, ci sono i cellulari, e molti giovani vanno in cerca di lavoro verso la città a valle.
"Far nascere un maschio o una femmina è la stessa cosa, una femmina si prenderà più cura dei genitori."
Anche la mentalità riguardo l’educazione sta cambiando: sempre più famiglie decidono di iscrivere a scuola anche le figlie femmine, nonostante venga preferito tradizionalmente il contrario. Soprattutto nel caso di famiglie con più di un figlio: se c’è da scegliere chi far studiare, sarà probabilmente il maschio. In Cina è illegale sapere il sesso del feto prima della nascita per evitare aborti in caso di femmine (conseguenza questa della politica del figlio unico), ma in molti casi le bimbe, semplicemente, non verranno registrate all’anagrafe per dare la possibilità al fratellino che verrà di diventare cittadino cinese. Nelle campagne si vedono spesso manifesti in cui si elogiano le doti delle figlie femmine rispetto ai maschi, descrivendole come più premurose nella cura dei genitori anziani. Per noi questi avvisi possono suonare decisamente arcaici, ma, date le circostanze, è comunque un grande passo avanti rispetto al silenzio che avvolge gli aborti di genere e l'uccisione delle neonate.
Dopo aver finito di cenare e aver rifiutato l’immancabile cicchetto di grappa, me ne vado a dormire, stanca, sporca, con la pancia e la testa piena.
Laura McMasala