Succede quindi che la voce di Maddalena Bolis venga abitata dal respiro ampio e perentorio di Marina – si veda, formalmente, l’invenzione di parole composte, dei trattini di separazione -; l’altezza del calore lirico, simile a una voce che ritorna in tutto il suo splendore: “Mi scandaglio, non mi erigo”…
Così questi poemetti finiscono per raccontare in/volontariamente una storia, per passaggi lirici e per risvolti biografici – si veda di Marina, e pubblicato in appendice, il questionario che la Cvetaeva compilò su di sé quando si trovava in Francia, dove era emigrata: “non conosco influssi letterari, conosco solo quelli umani…la vita è per me una stazione, presto partirò, non so per dove…”.
Conosciuta in occasione della pubblicazione della plaquette “Montagna assenza”, Maddalena Bolis è la prova di quanto sia necessario, oggi, per un critico, lavorare rasoterra, sensibilissimo e libero, a muso duro; fiutare le parole che si sono costruite a contatto della musa più tiranna e più accentatrice e per questo, dunque, parole dotate di una sostanziale necessità, quantomeno interiore.
Del resto questo organo della divisione suggerisce un dettato senza compromessi, nato sul bordo di precipizi, “a rischiare la gola”: nel regno di Persefone, con il narciso in mano; nella terra del Cristo crocifisso; nella danza voragine di Bacco; nel richiamo della sibilla, “formula che si arroventa nella voce/ma – libera!”…
Poesia ancora come vessillo di resistenza, poesia e vita che travasano le proprie linfe nell’altrui sostanza, “il Nome è una bufera,/maiuscola in pasto alla carta,/per la carta il mio Nome!”
Questo sfuriare del sentimento, questo orgoglio senza compromessi, si spiegano con la febbre di vivere di Marina – vita, resistenza e sopraffazione- in uno dei periodi più drammatici che la storia della poesia occidentale abbia conosciuto, e in cui il peso della miseria non poteva che generare vera morte e vera poesia.
Questi versi ci ricordano la libertà autentica della parola, mai svincolata dal colore della commozione e della luce fredda di un canto che non deve niente agli aguzzini della della Storia.
***
IL FIORE ROSSO (1)
I
Vai giù,
il tuo posto non è con le aquile:
il tuo posto è la gola
- schiacciata dalle acque:
acque e specchi semiaperti
a misurare il pentimento.
Il piedistallo suona la morte
- campane sbiadite per il tuo orecchio,
e tu – vertebra del tuo machete
hai perfino scelto la tua punizione, l’ultimo altare:
la corda verticale per il cappio.
Pur sempre alta – la tua morte al collo,
la tua colpa, – per il dopo.
Qui che piange è una bambina:
in stelo, lamento-tenebra,
la più piccola mano
che non sappia difendersi.
Medea: – quando
dalle traverse del buio -
hai scavalcato
il destino del parto,
dov’era l’occhio
insieme al più grande occhio?
Come estraevi la lapide dalla notte
senza trascinare la pietra nel mattino?
Pensavi forse all’ora prima dell’alba?
“Un attimo ancora
e la luce cancellerà”.
Marina: – tolta dalle mani la penna
l’anima sbiadisce.
Dalla cima della morte
il Dio invece creò l’accetta;
e per il tuo narciso, come per Lei:
al cocchio alato, nella fuga,
la via al cielo – serrata.
Tu, che ai PoetI facevi le culle,
tu, che nella culla pretendevi – il Poeta.
Acre dissonanza la tua malattia:
di stenti d’amore lasciare al buio la creatura,
con la mammella sinistra pronunciato il verbo
per la sepoltura.
Su di te l’osanna ha posto il veto -
da te – non un cero,
da te – il blu profondo
della non-misericordia.
Eri tu – l’impugnatura,
la tua lama – l’assenza.
III
Fragile corolla. (2)
In stelo, lamento-tenebra
- so di te e della voce
pronta al disgelo;
mia bimba che ancora cielo
- non più cometa …
Ma io so già strapparti al buio
- chiusa a chiave la stanza la chiave
non dimentica -.
Credi a me – siderale
- come al mugghio delle onde,
il fiore rosso perduto sulla neve
non ha che una nota:
“colpa!” mio udito,
fioco eco – il tuo nome
- velo strappato che non rimargina.
Tutto accorre nel ventre dell’orgoglio
- nell’impassibile spezzo
la tua stigmate irrompe:
abbiamo fame, come due sorelle
- fame della stessa Creatura-Amore;
come due funambole portiamo il peso
del non-argine, l’insaziata gravità
del non-dato, non-preso,
le frecce
chiuse dietro la schiena -
e non poter tendere l’arco.
Ma noi siamo il ponte
che supera il crogiolo,
la linfa-Fenice,
siamo il vestito arcano
che si ricompone
- l’aria, intorno.
Da tempo
ho cucito scarpine azzurre
- come il pentimento.
***
note:
(1) In questo poemetto è sotteso il destino di Irina Efron, bambina morta il 3 febbraio 1920 a soli due anni (…) e quello di sua madre Marina Cvetaeva.
(2) “Fragile corolla/sullo stelo del collo sottile/ ancora non ho capito a fondo/ che mia figlia è nella terra”, questa è l’ultima strofa di una poesia scritta in memoria della figlia da Marina Cvetaeva.