Magazzino 18: una Tragedia da Non Dimenticare

Creato il 24 aprile 2014 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Federica Zingarino 24 aprile 2014 leggere, letteratura Nessun commento

Scende la notte e si abbraccia il silenzio

sul Porto Vecchio si affaccia la luna

su questa terra che tutto comprende

che tutto perdona…

Io non ho un nome, potrei averne cento

come le vittime di questa storia

io porto il nome di chi non conosce

nessuna vittoria…

Non è un’offesa che cede al rancore

non è ferita da rimarginare,

è l’undicesimo comandamento:

«Non dimenticare»…

Un archivista romano, Duilio Persichetti, leale servitore dello Stato. Ed un luogo, un vecchio magazzino, dove andrà svolto un lavoro “particolare” di cui è meglio che in giro non si sappia molto («Sì, lo so che ’sta cosa deve rimané tra me e lei, che nun ne devo fà parola co’ nessuno… e io muto sto! Come sempre»). Per fortuna il fidato «Persichetti archivia tutto, pure i pidocchi», ma quando il Ministero degli Interni lo spedisce nell’abbandonato Porto Vecchio di Trieste per fare l’inventario dei duemila metri quadri di masserizie del Magazzino 18, dove trova «montagne di sedie aggrovigliate come ragni di legno. Legioni di armadi desolatamente vuoti. Letti di sogni infranti. E poi lettere, fotografie, pagelle, diari, reti da pesca, pianoforti muti, martelli ammucchiati su scaffalature imbarcate dall’umidità», si rende conto che non sa nulla di quel luogo e di conseguenza ignora cosa è accaduto in un dato momento del Novecento. Pensa che Giuliano Dalmata («e chi nun lo conosce? A Roma j’hanno dedicato pure un quartiere, no?») è il nome di una celebrità vissuta nel secolo scorso. Si ritrova a sognare vacanze con sua moglie nel mare di Novigrad («Tu nun poi capì che mare c’è in Croazia! L’acqua trasparente, mejo della Sardegna»). Ma quei vecchi oggetti hanno un’anima, lo “spirito delle masserizie”, che racconta al povero Persichetti, inizialmente spaventato, le storie sconvolgenti di chi li possedeva. E così egli archivierà tutto scoprendo le atrocità che sono state fatte a quel popolo: dal racconto del martirio di Norma Cossetto a quello del grave attentato che, il 18 agosto 1946, funestò una giornata di festa sulla spiaggia di Vergarolla, dove il medico chirurgo Geppino Micheletti lavorò senza sosta per ventiquattro ore prestando il suo soccorso ai feriti, nonostante avesse appena appreso la notizia della perdita dei suoi bambini. «Padre distrutto, medico ineccepibile: per l’Italia eroe dimenticabile».

Magazzino 18 è la sceneggiatura di una tragedia vissuta dalla popolazione istriana, un musical civile scritto dal cantattore Simone Cristicchi con la collaborazione dell’intellettuale Jan Bernas per la regia di Antonio Calenda, ma anche un bellissimo ed emozionantissimo libro edito da Mondadori e redatto dagli stessi due autori dello spettacolo. Il volume, che riprende quanto abbiamo potuto vedere a teatro, imprime su carta il ricordo di coloro che hanno vissuto questa terribile pagina di storia. Testimonianze forti, a volte tanto da non sembrare reali: tutte vicende drammatiche che, salvo rare eccezioni, non conoscono lieto fine. Storie diverse tra loro, diverse come chi le ha vissute: vittime delle foibe, profughi, esuli, rimasti. Ciò che accomuna tutte queste persone è l’emozione, il dolore e l’amore «per una terra che non è più mia» come recita Cristicchi nella canzone, tratta dal disco Album di famiglia (2013), intitolata non a caso Magazzino 18. La forza di questi uomini sopraffatti dall’incertezza, dall’inquietudine, dalla paura è stata la dignità, l’onesta e l’umiltà con cui hanno accettato e affrontato questa dolorosa pagina della loro esistenza. Non si sono mai lamentati, hanno affrontato tutto sempre a testa alta.

Come a testa alta ha affrontato questa nuova avventura Simone Cristicchi che, orgoglioso della strada intrapresa, ha accettato i rischi della sua scelta. Perché a distanza di decenni, dopo tanto silenzio, questa tragedia fa sì che chi se ne occupa venga etichettato come “fascista”, mentre dovrebbe essere soltanto il racconto rispettoso di una popolazione costretta a fuggire dalla propria terra e dalla propria vita. Cristicchi quel racconto rispettoso e pieno di silenzi lo ha trovato prima in un libro bellissimo (Ci chiamavano fascisti. Eravamo Italiani di Jan Bernas con cui poi ha iniziato la collaborazione) e successivamente nell’innamoramento per semplici, umili, quotidiani oggetti scoperti in una visita che ha fortemente voluto all’interno del Magazzino 18 del Porto Vecchio di Trieste. Per leggere questo volume ci vuole disposizione d’animo, ma queste pagine meritano sicuramente il vostro tempo. In conclusione, un testo che ti scalfisce, ti commuove, ti resta dentro e che ti indigna allo stesso tempo. E allora, come ci ricorda Cristicchi nel brano con cui chiude spettacolo teatrale e libro, è l’undicesimo comandamento che deve guidarci: non dimenticare.

Fotografie di Federica Zingarino


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