Sarà per questo che gli spari che laceravano il finale della sua opera meno personale, “Un giorno perfetto”, hanno acquisito più una valenza “terapeutica” che artistica per il regista, avendo chiuso metaforicamente i conti con la mestizia del precedente decennio. “Mine vaganti” in questo senso, pur muovendosi ancora fra la memoria dolorosa del rimosso e la rimozione del presente (il famoso coming out rinviato di Scamarcio), rappresenta la prima parentesi danzante e felice nel cinema di Ozpetek, un’opera che usa gli stereotipi (anche gay) per coniugare al meglio la commedia popolare e il dramma sullo sfondo di un Salento luminoso ed accogliente, segno di una ritrovata vitalità e maggior fiducia nel presente. Il ballo che chiudeva mirabilmente quel film, dove personaggi del presente e del passato si tenevano stretti in un abbraccio finale che segnava (o sognava?) la fine dei pregiudizi e l’inizio della comprensione, sembra aver lasciato i suoi segni anche su quest’ultimo “Magnifica presenza”. Anche qui passato e presente si intrecciano fin dalla (bella) locandina dove campeggia l’espressione buffa e un po’ interrogativa del suo protagonista Elio Germano, immagine che rimanda evidentemente ad altri tempi e, soprattutto, ad un altro cinema.
Una commedia ancora una volta, che succede a “Mine vaganti” col pesante compito di replicare quel consenso popolare e di critica ma che non può (e non vuole, come è giusto che sia) esserne un derivato preferendo al più mutuare da quella pellicola il medesimo registro “leggero” per raccontare, ancora una volta, temi più profondi. Storia di Pietro Ponte, pasticciere catanese dall’animo semplice, gay col candore e la spontaneità di sentimento di un bambino, che giunge a Roma col sogno di fare l’attore portandosi dietro il suo bagaglio personale di fissazioni (è un compulsivo dell’ordine anche altrui), l’album di figurine e una cronica incapacità di adeguarsi al cinismo moderno (corteggia come uno stalker un semplice compagno di “sveltina”). Pietro, cui dà anima, stupore e perfetto accento siculo un amabile Elio Germano, vede i fantasmi nel villino storico appena preso in affitto; sono presenze educate di uomini (più un corpulento bambino) in frac e col mascara agli occhi e magnifiche presenze di donne fasciate in abiti di seta ed acconciate come la Garbo.
Affettati come abito conviene, vanno e vengono davanti allo sbigottito Pietro che alla fine è costretto a cedere alla bizzarra coabitazione abbandonandosi perfino a un delicato corteggiamento. Sono attori, prigionieri di un tempo (il 1943 in piena seconda guerra mondiale) che li ha sacrificati nella vita così come sulla scena, forse proiezioni del protagonista o “semplicemente” the others ancora non consapevoli di essere trapassati e in attesa di qualcuno che li aiuti a fare il grande passo. Di sicuro, per l’autore, sono metafore evidenti di una memoria che non deve soccombere al tempo e che si affida ad altre magnifiche presenze (Germano appunto) per poter continuare a sopravvivere. Ozpetek prende dunque a pretesto la ghost-story solo per innescare quel cortocircuito fra passato e presente indispensabile ai fini della sua tesi; l’urgenza oggi, sembra voler suggerire il regista, non è più soltanto quella di raccontare una società più “auspicabile” sotto qualsiasi profilo, quanto essenzialmente quella di preservarne la memoria che è il patrimonio più a rischio delle nuove generazioni.
Si serve di un personaggio limpido ed innocente come Pietro Ponte per operare questo movimento, rendendolo il fulcro di una ritrovata consapevolezza (propria e dei suoi invisibili inquilini) ma facendone anche il corpo su cui si consuma audacemente quella dialettica tra finzione (o visione?) e realtà (o follia?), ma anche fra teatro e vita, bugia e verità. Così i fantasmi ispireranno Pietro nel suo provino d’attore, rendendolo tanto più convincente quanto più ne educheranno posa, voce e movimento in linea con le arti del proscenio. Perché la teatralità del gesto, suggerisce il regista, sembra superare di gran lunga la finzione della scuola (e non è un caso l’ironia che accompagna la scena del provino per un ammorbidente). E del resto è tutto il film ad essere attraversato da figure caratterizzate da una certa teatralità. Se infatti la realtà è fatta essenzialmente di macchiette (come la cugina, una splendida Paola Minacciosi, o il gay libertino da una notte e via), ad emergere positivamente sono invece altre figure come le ben note “fate ignoranti” che popolano Roma, esseri fragili e rassicuranti come il travestito che cita Blanche DuBois e la bontà degli sconosciuti (da “Un tram che si chiama desiderio”), o le altre creature quasi eteree ed invisibili che vegliano su di noi come guardiani su un tram, e perfino quelle “sotterranee”, sfruttatrici spietate come un boss della camorra ma anche custodi autoritarie delle verità sul mondo che “sta sopra” di loro.
E poi ci sono le streghe sopravvissute alle stragi del passato che rivelano la loro identità tramite improvvisi soprassalti di inaspettata crudeltà (ancora una magnifica presenza, quella di Anna Proclemer). Sono squarci inattesi, forse indigesti per i detrattori di Ozpetek e che un po’ sbalestrano la narrazione allontanandola dal suo asse principale, ma che di sicuro colpiscono nel segno contribuendo a fare del film un meraviglioso calderone colmo di eccessi, suggestioni ed ossessioni personali. Imperfetto senza dubbio ma anche autentico nel suo generoso debordare. Ambizioso tassello che arricchisce il complesso mosaico sulla ricerca di un’identità (emotiva, sessuale, sociale) fin qui composto dal regista, “Magnifica presenza” osa quindi misurarsi coi massimi sistemi della vita, della morte, dell’arte e soprattutto, come già detto, della memoria storica del paese.
Qui, più che il nazifascismo, evocato solo per giustificare gli accadimenti, conta invece quel risorgimento mai realmente portato a compimento, con il fantasma (quello sì) di un’Unità d’Italia sino ad oggi mai completata se si eccettua, metaforicamente, quella realizzata attraverso le figurine di una raccolta della Panini; ancora una volta la soluzione sembra rintracciabile in quello spirito di comunità che aspetta solo un pretesto per nascere spontaneo (davanti alle proverbiali tavolate alla Ozpetek o semplicemente, come accade stavolta, attaccando le figurine). Qualcosa si perde entro un così fitto tessuto connettivo che mette tanta (troppa?) carne al fuoco e qualche ambizione finisce per restare poco più che abbozzata. Tuttavia, resta ammirevole la capacità con cui il regista riesce a ricondurre tutti i fili narrativi sotto le medesime semplicissime verità.
Nel familismo allargato di Ozpetek trovano quindi spazio tutte le possibili forme di integrazione, da quella sessuale a quella sociale, da quella sentimentale a quella etnica e culturale e, perché no, anche quella politica. Ma sono accenni, come si diceva, spunti e suggerimenti filtrati dalle (magnifiche) ossessioni di un autore che ha fatto della commistione fra necessità di raccontare il mondo fuori e sguardo privato la prima ed essenziale ragione del suo filmare. Quel finale a teatro, sequenza che si ricongiunge alla soggettiva iniziale dell’occhio che esplorava nervosamente il proscenio, chiude il film riconciliando i personaggi con il loro autore, il presente con il passato e infine l’Elio attore con l’Elio spettatore. È il suo sguardo diretto in macchina, maschera finalmente nuda davanti al pubblico (come già la Mezzogiorno de “La finestra di fronte”) o fantasma fra i fantasmi, a rivelarci il segreto: perché a contare, in fin dei conti, è solo il magnifico piacere della finzione.