Si comincia sempre con la splendida “The Moon (And The Air It Moves)” subito incalzata da “Dancing At The Dutchtreat” dove Gabrielson dà il suo meglio, imitato da Hourdakis. Ma è a partire dal terzo pezzo (“Mary Jane Doesn’t Live Here Any More”) che si inizia a notare la maggiore perizia di Karlsson, esaltata dalle carezzevoli spazzole di Öström che manda poi in contrappunto charleston e grancassa, creando un contrasto emozionante tra durezza e morbidezza. “Searching For Jupiter” ha un attacco quasi atletico di Karlsson, che parte a un ritmo altissimo, su una batteria molto più dura e staccata che nel disco, e dove Öström infila molti più colpi per battuta: corrono tutti a perdifiato, e Hourdakis tira fuori un assolo vertiginoso lasciando poi la mano a Karlsson che suona a una velocità talmente pazzesca che non si vedono le sue mani; eppure non si ha la sensazione di alcun dichiarato virtuosismo: sembra una volontà espressiva la sua, non la necessità di fare il fenomeno. E alla fine della sua performance Öström lo riacchiappa con un crescendo di batteria da cui lancia il potente assolo di Hourdakis.
In “Weight Of Death” Karlsson all’Hammond duetta con Gabrielson al basso synth, su cui Hourdakis accarezza la sua chitarra con un arpeggio più shoegaze che jazzistico, fino a che tutti sembrano improvvisare stravolgendo totalmente l’originale, creando come una sintesi della melodia. Tocca anche stavolta a Karlsson trasportare con due accordi la band in “Through The Sun” dove spiccano prima Gabrielson e poi ancora Karlsson che si perde dentro un’improvvisazione infinita e trascinante, sotto lo sguardo complice, ammirato e felice di Öström.
L’ultimo brano prima del bis è stato come sempre “At End Of Eternity”, uno dei pezzi più belli del jazz contemporaneo, una cattedrale di suoni dove la batteria di Öström parte per il suo incontenibile, sovrumano assolo, con il pubblico che sembra quasi insoddisfatto della propria capacità di manifestare con mezzi umani la propria esaltazione, e i miei 1200 chilometri di andata e ritorno per Marostica si trasformano in una passeggiatina. Incredibile a dirsi, ma questa versione è stata persino superiore a quella di Istanbul.
E per il bis sempre “Piano Break Song”, bella come l’originale ma molto più anfetaminica, incalzante, e sulle battute ritmiche di mani del pubblico Hourdakis parte per un’improvvisazione raggiunto da Karlsson, mentre Öström fa volare le sue spazzole ovunque, inarrestabile, cavalcando un glorioso finale super prog.
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