Mal comune mezzo gaudio

Da Jollyroger

foto:wikimedia

In linea di massima sono sempre stato una persona piuttosto timida. Non a livello patologico, più che altro perché ho sempre combattuto aspramente, anche contro me stesso, per impedirmi di precipitare in realtà senza ritorno. Hic sunt leones.
Le cause? Come sempre, una madre sottilmente autoritaria e castrante, ben peggiore di tutti e tre i fantasmi del canto di natale di Dickens messi insieme e il fatto che ognuno nasce con il carattere che ha.
Essere grassottello da piccolo, e con qualche chilo di troppo da grande, non è certo stato d’aiuto; per questo ho sviluppato un mio personale modo di saltare l’ostacolo: ovvero esternare un’aggressività selvaggia e spesso immotivata verso chiunque si permettesse solo di guardarmi in modo strano. Un rispetto guadagnato a suon di botte: date e anche prese. Tornare a casa con i vestiti strappati e la faccia pesta è stato per un certo tempo una cosa abbastanza normale. “Sono caduto in bicicletta - oppure - ho inciampato sui gradini dell’oratorio”, erano le uniche omertose parole che uscivano dalla mia bocca. E il bello è che mia madre ci credeva pure. Meno mio padre, per il quale non esisteva altra regola che restituire con gli interessi ciò che si riceveva - nel bene o nel male -, non rendendosi conto che non erano più gli anni di quella specie di far west delle case di ringhiera nel dopoguerra.
Vivere così non è mai stato facile; tenere tutto dentro, far finta di essere sani, come cantava Giorgio Gaber, non era né facile, né sano. Alla fine delle elementari, quell’anima buona della maestra disse ai miei genitori: “È un ragazzo intelligente, sveglio, ma, a essere onesta, devo dire di non essere riuscita a capirlo davvero; soprattutto quando mi guarda con quegli occhioni...”.
E invece è stata l’unica a capire, almeno un po’, cosa significasse per me combattere ogni giorno con la paranoia di credere che tutti non avessero occhi che per me: per la mia goffaggine, la mia pancetta, le mie guance paffutelle, l’orticaria, il non saper correre veloce, l’essere costantemente ignorato dalle femmine. Alle medie i chili di troppo erano quasi svaniti ma cominciai a fissarmi con i muscoli, il ventre piatto, i bicipiti che non c’erano, senza rendermi conto che stavo diventando oggettivamente bello. Ma una vita non cambia da un giorno all’altro, chi nasce tondo non diventa quadrato, diceva mia nonna. Perciò ero sì un bello incosciente di esserlo, ma anche il solito rissoso, permaloso e, a volte antipatico, ciccione di sempre.
È una doppia vita da Jekyll e Hide, da Zelig, con cui ho imparato a convivere, senza troppi problemi, anche perché, col tempo, anch’io sono cresciuto, ho imparato a controllare le mie emozioni, a mascherare il virus della timidezza dietro un lavoro in proprio, gli interessi famigliari, gli hobbies solitari.
Ma c’è stato qualcosa che è accaduto qualche giorno fa che, malgrado questo periodo sventurato, mi ha fatto ben sperare.
È successo che la palestra di karate di C. ha dovuto chiudere per fallimento - i tempi sono questi - e c’è stata un’assemblea fra iscritti e istruttore (quello che parla come toro seduto anche se è italiano) per vedere come porre rimedio alla continuità del corso. Beh, non ho avuto nessun problema a parlare con persone che non conoscevo, o che conoscevo solo di vista, organizzare le liste di chi era disponibile a continuare, interagire anche con chi non mi risultava affatto simpatico. Per una volta tanto non mi sono sentito inadeguato, osservato, giudicato. Anzi, io stesso ho potuto godere della goffaggine della famiglia intera di un amico di C.
Si tratta di M. un ragazzino timido che, fino a qualche mese, fa parlava come Topolino, ma con un leggero accento campano. Che sia timido non è nulla di così stravagante, la cosa divertente sono i genitori, particolarmente la madre. Non c’è esame di karate del figlio dal quale non scappi in tutta fretta in cortile dove, immancabilmente, la si ritrova che vomita in qualche tombino. Per strada pesta, senza dimenticarne nemmeno una, tutte le merde di cane, sbattendo spesso contro i pali dell’illuminazione stradale, distratta da qualche conversazione. Inciampa su quasi tutto, scale, gradini, marciapiedi, compresi i fogli di carta abbandonati per strada. Quindi pensavo fosse il padre quello serio della famiglia, anche se parla poco, sottovoce e farfugliando, ma quando, appoggiandosi a una panca da ginnastica nella palestra ormai in disarmo, l’ha fatta cadere con un frastuono che ha spaventato tutti quanti, allora ho capito: è tutta la famiglia ad essere così, compreso M. che, un giorno, ha confidato a C. di essere caduto scivolando su una merda, impiastrandosi i pantaloni e facendosi pure male.
Che dire, sono cose che tirano su il morale di uno come me, mi sento molto più normale di quello che sono, meno goffo, meno osservato. Ma non è solo questo che mi ha fatto sentire bene, è stata anche la sensazione che la serietà della mia situazione economica e lavorativa abbia fatto passare in secondo piano tutti gli altri problemi, la sensazione che oggi non c’è più tempo da perdere in cose poco importanti, cose che non meritano di rovinare una vita.


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