Quelli che sentono su di sé il fiato della fine si dicono pronti a combattere con il coltello tra i denti. Ma bisognava farlo prima: bisognava farlo da sempre. Noi siamo deboli perché l’abitudine vince sempre su tutto. Dovevamo essere sul piede di guerra già dal primo giorno di leva! Ma siamo persone pacifiche e soprattutto, ci fidavamo degli altri. Quegli altri che adesso, con la faccia bianca e triste (cosparsa di cipria, allenata a far finta di piangere come in una specie di teatro “NO”) ci mostrano le frecce colorate e ci dicono che si, questo sacrificio non ce lo possiamo evitare.
Siamo quelli che fino a qualche mese fa guardavano al collega come ad un semplice compagno di lavoro e che ora lo sogguatano come un nemico da evitare e del quale temere. Si cominciano a fare conti assurdi: la nostra testa è un vulcano in continua eruzione che di giorno frulla e frulla e di notte costruisce castelli astrusi nelle poche ore di sonno che la tensione ci concede.
Per quanto mi guardi intorno, non trovo alcuna via di scampo. Scavo e riscavo tra le cose che potrei fare e non ne trovo nemmeno una di commercialmente valida. La tristezza sale. Leggo di uomini che a cinquant’anni si sono rifatti una vita ricominciando tutto daccapo. Ma io non sono un pioniere, non ho mai voluto niente altro al di fuori di questo. Mi bastava; vivevo bene. Ci sono alcuni che nella discontinuità si trovano come piranha nello stagno. Io sono una placida tinca che nuoticchia vicino al fondo: non voglio rotture di palle, non le cerco e non le provoco. Eppure dovrò fare i conti con una rivoluzione; dovrò barricarmi e rispondere al fuoco. Dovrò cercare di mantenere la freddezza; di farlo per me e per quelli che amo. E la Guerra comunque non è mai finita.