Per questo, ancor prima di entrare nel vivo della questione, mi scuso con chi sta leggendo e con chi vorrebbe una cronaca attenta e precisa. Non sarà così, non qui, non per questo pezzo.
In una Caserta di un Novembre insolitamente troppo caldo, appoggiate ad una macchina fuori ad un locale del centro che suona musica che ricorda il verde dell’Irlanda e il sapore delle terre del Sud d’Italia, due ragazze con un bicchiere di vino rosso in una mano ed esperienze pronte per essere condivise nell’altra, parlano, si conoscono, si raccontano. Una di quelle due ragazze sono io, l’altra … beh, l’altra è quella parte del mondo vittima della tanto detta (TROPPO DETTA) “Mala Sanità”. Una ragazza che all’anagrafe ha 28 anni, ma che negli occhi e nelle mani di anni ne ha molti di più. Ha gli anni di quelle persone che nel petto portano le colpe di terzi, della negligenza di chi la vita la dovrebbe tutelare, provare a salvare, non abbandonarla a sé stessa senza muovere un dito.
Non racconterò la storia di questa ragazza costretta troppo presto a diventare una donna. Non la racconterò perché sento di dovere al suo dolore un rispetto che i medici non hanno avuto. Non la racconterò perché questo non è un articolo di denuncia o di polemica. Non la racconterò perché questo vuole essere un articolo di coscienza.
Ogni qualvolta qualcuno muore non per cause naturali, ma per errori umani dovuti all’indifferenza o alla sufficienza di medici o chi per loro, ci si scaglia contro o a favore di un ospedale che, in quel caso, espone giustificazioni e proprie ragioni. Nessuno mai accende i riflettori su chi…RESTA. C’è quel correre di camici bianchi, correre ai ripari ovviamente, dietro schiere di avvocati pronti a sostenere l’assoluta necessità di quelle decisioni che poi, per disgrazia, solo per disgrazia, si sono dimostrate fatali. Ma non sono qui a sostenere l’assurdo. Dietro bisturi e mascherine ci sono uomini, certo. E la natura dell’essere umano, si sa, non è infallibile. Ma c’è chi, quando un proprio caro è in un letto di ospedale, ha bisogno di essere rassicurato. Ha bisogno di sapere che può contare sulla lucidità e la competenza di chi ha nelle mani le responsabilità della vita di chi ama e così, poi, potersi lasciare andare.
E invece capita sempre più spesso che chi resta a piangere un proprio caro, resta solo, senza le scuse di chi dovrebbe, senza il tempo di un saluto e… in alcuni, troppi, casi, anche messo in discussione da un sistema che, in un modo o nell’altro, la spunterà sempre.
Il vero problema è che viviamo nel mondo del “NESSUNO TOCCHI CAINO” senza porsi una domanda fondamentale: MA ABELE CHI LO DIFENDE? Proviamo a capire le ragioni di quanto accade, cerchiamo di giustificare chi commette errori che comportano la morte di innocenti, facciamo sconti di pena a chi ha responsabilità troppo grandi per uomini troppo piccoli. Ma per le vittime, no, di sconti non ce ne sono. Il loro dolore sono costrette a viverlo tutto. Fino in fondo.