Ecco al cinema l’ennesimo remake di fiabe, in particolar modo di fiabe già portate sul grande schermo della Disney, stavolta La Bella Addormentata nel Bosco del 1959, a sua volta ripreso dalle versioni della fiaba di Perrault e dei Grimm. Premettiamo che ovviamente, già da decenni prima di Maleficent, è sempre stata consuetudine del gigante Disney stravolgere addolcendo le fiabe della tradizione, ma almeno nel vecchio classico ci si era degnati di mantenere intatta l’ancestrale fiabesca dicotomia tra la donna giovane (Aurora) e la donna matura/madre putativa/madrina degenere (Malefica). Ciò ovviamente non poteva oramai accadere in Maleficent, dopo che si era già visto (come in Biancaneve di Tarsem Singh) come rispettare il contrasto comportava coerenza ma anche discrete chance di fallimento per un remake: Maleficent segue invece imperterrito la stessa ricetta di rilettura simil-femminista di Frozen e – non a caso, visto che la cosa va di moda – si va già immettendo nella sua larga scia di successo, sia negli Usa, sia in Europa e in Italia.
Al contrario della preziosità, finezza e coerenza che poteva avere La Bella e la Bestia di Christophe Gans, Maleficent sceglie la strada opposta, rimischiando le carte in tavola e cambiandole a piacimento, quasi si trattasse di un romance con risvolti a sorpresa e il resto, il contesto, sia di contorno.
Mentre di norma la fiaba è una sorta di rappresentazione delle paure di un giovane/una giovane nel passaggio da infanzia ad adolescenza e maturità, con raggiungimento finale del distacco rispetto alla vecchia generazione spesso mostruosamente e appunto “maleficamente” trasfigurata (non perché è “cattiva in sé”, o incattivita dal male subìto, cattiva semplicemente perché simbolo di figure familiari di ostacolo alla maturazione dell’adolescente se onnipresenti e tiranniche): qui al contrario può realizzarsi invece il regno delle ragazze che non si curano di staccarsi dal calore del ventre materno. Al massimo si può fare a meno di un padre, o di un principe, ma “la mamma (qui da sempre vista nella sua controfigura di madrina degenere, visto il suo lato cattivo) è sempre la mamma” e il suo beneplacito assoluto appare al contrario elemento totalmente indispensabile alla felicità e alla realizzazione di una fanciulla. Questa, la nuova morale della fiaba: l’esatto opposto dell’originale e del classico significato di percorso di iniziazione nel mondo degli adulti che hanno le fiabe.
Complice di tutto ciò è probabilmente la stessa divina rinomata bellezza della protagonista star Angelina Jolie, vero punto vitale del film, sia per bravura, sia per il ruolo “metafilmico” che l’attrice viene a ricoprire nel film: quante migliaia di ragazzine, ma anche adulte, si trovano in uno stato di odio e al tempo stesso adorazione della sua figura, temendola, invidiandola ma apprezzandola al tempo stesso?
Un analogo gioco di marketing è stato in passato sfruttato da Biancaneve e il Cacciatore, con risultati però nel complesso più convincenti per quanto riguarda il rapporto tra villain/matrigna (Charlize Theron) e giovane protagonista (Kristen Stewart).
Maleficent insomma non convince, al contrario delude, propondendoci spiegazioni – in più rispetto al classico Disney – banali, non necessarie e personaggi secondari insignificanti, se non a volte ai limiti del ridicolo: l’unico del cast che riesce a salvarsi dalla piattezza sembra essere il Fosco interpretato da Sam Riley, per il resto gli altri soccombono quasi dinnanzi all’aura emanata da Angelina Jolie, la quale risulta in grado di giostrarsi molto bene, pur tra le difficoltà che il rivisitato personaggio di Malefica pone nel film, reggendone in pratica il peso tutto sulle sue spalle e sulla sua recitazione.
Per quanto riguarda l’aspetto spettacolare e visivo non c’è invece nulla da ridire: del resto nella giostra di registi usciti e entrati nella produzione di Maleficent, alla fine la regia è toccata in sorte a Robert Stromberg, famoso ed eccellente supervisore di effetti visivi e scenografo. Lì dove la spettacolarità del film pare risvegliare i sensi, c’è sempre poi però a fare da contrappeso la pesantezza di dialoghi poco significativi, di una narrazione che tende ad essere a suo modo lenta, di un montaggio che permette un alternarsi indistinto di ritmi e toni troppo differenti.
Ne esce infine il classico prodotto di intrattenimento contemporaneo: spettacolare, mix più o meno digeribile di varie storie e correnti di pensiero, ricucito insieme nelle sue incoerenze fino al raggiungimento della sufficienza e della decenza: il classico film adatto a sbancare il botteghino, ma che al tempo stesso risulta poco memorabile.