Da “I cinquanta volti di Juliet”, 1945, Fotografia, vintage print, 33,3×22,6 cm, Courtesy Fondazione Marconi
Man Ray 1944 Fondazione Marconi Arte moderna e contemporanea MILANO (MAPPA). Alla Fondazione Marconi Antonio D’Orrico, Janus, Giorgio Marconi e Carlo Cambi presentano il romanzo inedito di Man Ray, 1944, martedì 6 novembre 2012 ore 18. In occasione della pubblicazione del libro, la Fondazione Marconi inaugura una mostra con opere di Man Ray coeve alla scrittura di 1944. Nel 1940 Man Ray abbandona Parigi per rifugiarsi a Los Angeles, dove incontra personalità importanti, ottiene riconoscimenti e diverse mostre e dove, soprattutto, conosce Juliet Browner: la sua musa, modella e, dal 1946, moglie a cui dedicherà la indimenticabile serie di fotografie The Fifty Faces of Juliet, alcune tra le quali saranno in esposizione. In mostra anche disegni dalla serie “Studies for Leda & Romeo or Juliet” , gioco di illusioni ottiche, uno dei suoi “oggetti d’affezione” Contraption (Marchingegno) (1944), diverse fotografie tra cui Chessboard (1942) che è anche l’immagine con cui si interrompe il romanzo: Robor si addentra in un luogo surreale simile ad un cafè o ad un night club, popolato da donne nude e “qua e là vi è una coppia china su una scacchiera” (Man Ray), “una mescolanza di sogni e ricordi che sembra talmente forte da arrestare la penna dell’autore” (Janus). MAE Milano Arte Expo ringrazia Giorgio Marconi per aver concesso la pubblicazione di importante valore storico e culturale, che qui segue, della prefazione del libro 1944 scritta da Janus. >>
“1944” UNA STORIA NON IMMAGINARIA di Janus
Questo romanzo non sarebbe mai stato scritto se nel 1944 il mondo non fosse stato ancora tutto immerso in una delle più spaventose guerre di tutti i tempi. Il protagonista proviene dalla realtà e va verso un mondo immaginario, poiché cerca di dimenticare quello che ha visto: una battaglia aerea, probabilmente, come aviatore, il clima di paura della guerra, il pericolo della morte, l’era atomica che avanza con i suoi cupi artigli, ma il romanzo, come il suo autore vuole precisare, è stato scritto “prima di Hiroshima”, che avrà luogo solo nel 1945. Per ora la guerra è come un incendio, è sparsa a frammenti per tutto il pianeta, è ancora un animale vivente, per alcuni è già finita, per Man Ray è già un tentativo di proiettare la sua mente nel futuro, di allontanarsi dal ricordo di questa guerra che si svolge in Europa e si svolge nel cuore nel Pacifico. Forse scrive per esorcizzarla, a scopo apotropaico, è una specie di traccia che attraversa tutta la sua memoria, è un sentimento sotterraneo, è qualche cosa di paradossale, si svolge a migliaia di chilometri dalla California, ma è come se si trovasse davanti alle coste della California, dove Man Ray vive, è lontana ed è sempre vicina.
MAN RAY Before & After 1943 contatto 10,5 x 7,3 cm Courtesy Fondazione Marconi
Le guerre non finiscono mai, cambiano soltanto di fisionomia, lasciano tracce visibili nelle opere d’arte, oppure diventano storia o filosofia o letteratura. Il senso di questo romanzo risiede in un capovolgimento, se Robor è una parola che può essere letta in entrambi i sensi, anche la storia ha la stessa ambivalenza, è pace ed è guerra nello stesso momento. Robor è un perfetto palindromo, ma anche la storia è un palindromo, può essere letta in senso inverso. Ai dadaisti piacciono questi giochi di parole. L’amico Marcel Duchamp utilizza lo stesso sistema linguistico per il film a cui dà il titolo di Anemic Cinéma. Man Ray fa invece uso di un anagramma quando per designare, a distanza di anni, lo stesso oggetto in una versione leggermente modificata, il suo famoso ferro da stiro, passa dal lemma Cadeau ad Audace. È un curioso esercizio stilistico quello che Man Ray applica nel suo romanzo, il tempo si sposta continuamente tra il passato ed il presente: Man Ray nel suo vagabondaggio parla con uno sconosciuto, ma questo sconosciuto è lo stesso Man Ray: uno è un artista, l’altro è un critico d’arte, in realtà è uno scrittore ed è un intellettuale, le loro professioni sono confinanti, anche l’artista nel XX secolo è un intellettuale. “Lo scrittore è un investigatore, il pittore è un osservatore”, scrive Man Ray, ma il ruolo può essere capovolto. Il protagonista dice che svolge “un lavoro di guerra”, ma non specifica di quale lavoro si tratti, ci fa comprendere soltanto che la guerra non è finita, si aggira ancora nella coscienza degli uomini. Il protagonista del romanzo vaga per una metropoli immaginaria che è già la città del futuro ed è nello stesso tempo la città del passato (la partita a scacchi, di cui parla nelle ultime righe, il richiamo alla sensualità che in Man Ray è sempre stata molto forte). Descrive in realtà una città sotto assedio. Tutto è ancora molto misterioso. Questo romanzo è un enigma che ha le sue radici nella terrificante guerra che si sta svolgendo sull’intero pianeta, la chiamano, non a torto, Guerra Mondiale. Dobbiamo quindi allargare il nostro sguardo per comprendere meglio quello che Man Ray ha scritto.
Il 1944 è un anno interminabile, la Seconda guerra mondiale, che ha avuto inizio nell’imprevidente 1939 con l’invasione della Polonia, ha improvvisamente preso una direzione differente, dalla sconfitta iniziale sta avviandosi verso la vittoria, ma la guerra non è finita, la soluzione definitiva sembra ancora lontana, molte migliaia di uomini sono ancora destinati a morire. Il 6 giugno 1944 l’enorme esercito degli Alleati, proveniente dall’Inghilterra, attraversa la Manica e sbarca in Normandia. È un’operazione grandiosa che spezza la resistenza tedesca, è una delle più sanguinose battaglie della storia. I combattimenti sono feroci, ma ormai il destino dell’umanità è segnato. La nazione che aveva aggredito, la Germania, che aveva orgogliosamente occupato la Francia, è costretta a retrocedere, e le nazioni che erano state aggredite stanno prendendo la loro rivincita. Il 25 agosto Parigi viene liberata e per Hitler e per i suoi complici sta ormai suonando la campana a morte, ma, forse, non ne sono ancora convinti, sperano in un miracolo, nelle inesistenti armi segrete che dovrebbero annientare gli invasori. Il 14 settembre l’armata americana raggiunge il confine tedesco. Nonostante l’ultima offensiva tedesca delle Ardenne, nel dicembre 1944, la situazione per la Germania rimane disperata e già nel gennaio 1945 l’esercito tedesco deve retrocedere. La fine si avvicina rapidamente, ma in quell’infuocato 1944, di cui parla Man Ray, gli uomini vivono ancora con il fiato sospeso, non sanno fino a quando dovranno ancora attendere. Il nazismo fino all’ultimo vive di rabbia, di frustrazioni, di arroganza, di delitti, non rinuncia alla sua brutalità. Sacrificherà i suoi uomini e sacrificherà Berlino ridotta in macerie, ma dovranno passare ancora molti mesi prima della resa, il mondo dovrà aspettare l’aprile del 1945 perché questo massacro abbia fine, Hitler sceglie il suicidio nel pomeriggio del 30 aprile per sottrarsi alle sue responsabilità, è la sconfitta definitiva della Germania, ma c’è un’altra guerra che si svolge parallela nei mari del Pacifico, altrettanto spietata, altrettanto feroce, davanti alle coste della California, davanti alla città di Los Angeles, dove in quel periodo vive Man Ray, nel cuore di Hollywood. Questa seconda guerra aveva avuto inizio l’8 dicembre 1941 (corrispondente al 7 dicembre degli Stati Uniti) con l’attacco giapponese alla flotta americana a Pearl Harbor. L’offensiva nipponica appare irresistibile, il 10 dicembre viene affondata la corazzata Princes di Wales e l’incrociatore da battaglia Repulse lungo le coste malesi. Altre navi cadono sotto il fuoco degli aerei giapponesi e l’impero nipponico dilaga nel Sud Est Asiatico, sembra quasi che il Giappone possa vincere, possa straripare, arrivare fino alle coste americane, tutto l’oceano è in fiamme, l’America scopre d’essere vulnerabile. Negli anni successivi si svolsero altre battaglie, ma anche per quell’area arriva il 1944, con la rivincita dell’America che infligge una dura sconfitta al Giappone con la battaglia del Mar delle Filippine del 19 e 20 giugno 1944. Il Giappone è costretto a ritirarsi sempre più indietro. Il conflitto nel Pacifico assume dimensioni spaventose a causa della vastità del mare e delle numerose isole che debbono essere conquistate ad una ad una, bisogna tener conto della resistenza accanita dei giapponesi che preferiscono farsi uccidere piuttosto che arrendersi. La guerra in quella zona non fu meno spaventosa di quella che si svolgeva in Europa ed i riflessi si fecero sentire su tutta la costa della California che per anni era stata esposta ad altre insidiose minacce che potevano provenire dai sottomarini tedeschi che facevano strage di navi mercantili e da guerra in quella stessa zona. Se in Europa la guerra finisce nell’aprile 1945, nel Pacifico la guerra ha fine soltanto con la bomba atomica su Hiroshima il 6 agosto 1945 e con la bomba atomica su Nakasaki del 9 agosto 1945, che costringono il Giappone ad arrendersi il 2 settembre 1945. Fino all’ultimo la California ha vissuto in una tragica apprensione. Non era facile sorridere in quegli anni e questo spiega anche la cupezza di questo romanzo incompiuto.
MAN RAY Masque 1944 Inchiostro su carta 34,5 x 27,5 cm Courtesy Fondazione Marconi
A migliaia di chilometri di distanza da entrambi i conflitti, Man Ray comincia a scrivere il suo romanzo intitolato 1944, nel lontano rifugio di Los Angeles. Perché questo titolo? Perché si tratta ancora di un anno di guerra. Di solito Man Ray è molto più fantasioso, quando deve dare un titolo ai suoi testi o alle sue opere artistiche, ma con la consueta intuizione Man Ray è consapevole che si tratta di un anno fatale, di un anno che cambierà la storia del mondo, di un anno che preannuncia la fine della strage brutale ed apre uno spiraglio verso la salvezza. Man Ray potrà, forse, finalmente ritornare in Europa. Avrebbe già potuto anticipare questo ritorno, la Francia è stata liberata, ma i mari non sono ancora sicuri, il cielo è ancora attraversato dagli aerei da guerra, le restrizioni del periodo bellico non sono ancora finite, molti combattimenti in Europa ed in Asia sono ancora in corso. Dovrà attendere fino al 1951. Allora il titolo 1944 è un segno di speranza, è un confine tra due epoche, in questo romanzo-saggio vi è già la descrizione di un mondo che offrirà maggiore sicurezza. Il destino dell’umanità è affidato alle macchine, che forse saranno più sagge degli uomini o, forse, più spietate. È già il segno dell’utopia. Possiamo solo indovinare quello che avrebbe scritto in seguito: una società confusa, una società solitaria, una società non ancora guarita. Le macchine confortevoli dispensano cibo a volontà ed offrono protezione, ma lo scrittore Man Ray è sostan6 zialmente pessimista. Vorrebbe ritornare verso un mondo più umano, ma sa che è impossibile, vorrebbe ritornare verso l’Europa, che gli ha dato la fama e l’amore, verso quella Parigi caotica e contraddittoria che lo ha amato, mentre l’America della sua giovinezza era rimasta indifferente e spesso ostile. Man Ray in quell’anno è impaziente ed è sicuramente amareggiato. A Los Angeles ha ottenuto tutto quello che desiderava, non sono mancate esposizioni importanti e riconoscimenti intellettuali, ha incontrato gli uomini più intelligenti del tempo che provengono dall’Europa, ma tutto questo non è sufficiente. Vorrebbe evadere, come ha sempre fatto; d’altronde a Los Angeles è in procinto di iniziare una lunga storia d’amore con una donna affascinante, Juliet Browner. È un’americana, è ebrea, suo padre è rumeno, è un’altra donna che ha percorso il mondo in cerca di libertà, ha una bellezza esotica, quasi orientale, “occhi a mandorla”, nota lo stesso Man Ray, potrebbe essere nata in qualsiasi altra parte del mondo. Gli amori di Man Ray hanno sempre avuto un carattere eclettico, ama donne dalla bellezza insolita, dalla bellezza fiabesca, rifiuta in amore come nell’arte la banalità, tutto quello che suscita il sospetto della rassomiglianza e dell’imitazione. Come scrittore segue lo stesso schema. Si sposeranno nell’ottobre 1946, dopo anni di convivenza, e con la stessa cerimonia Max Ernst sposa la pittrice Dorothea Tanning. Dell’avvenimento rimarrà un quadro di Max Ernst intitolato Doppio matrimonio a Beverly Hills.
“1944” non è l’unico testo che scrive in quell’anno, affronta contemporaneamente altri temi che sono sempre al limite della provocazione. Il 28 febbraio dello stesso anno scrive in forma poetica un lungo testo polemico e trasgressivo intitolato Diatriba. Nel settembre redige un testo teorico dedicato agli Oggetti d’Affezione. Il 4 dicembre pubblica sulla rivista View – The Modern Magazine di New York un divertente testo intitolato Ruth, Rose and revolvers. È un periodo ricco di invenzioni letterarie, già negli anni precedenti si è dedicato alla letteratura. Non abbandonerà mai questa abitudine che continua nella stesura dei suoi diari. Nel 1947 partecipa, con un soggetto, tratto dal racconto appena citato Ruth, Rose and Revolvers e con la sua stessa interpretazione, ad un episodio del film di Hans Richter, un altro profugo dalla Germania, intitolato Dreams that Money Can Buy (I sogni che si possono comprare). I sogni sono un aspetto importante dei suoi procedimenti artistici: possono diventare un quadro famoso, come Beau temps (1939), possono confondersi con i suoi oggetti pre e post dadaisti: nelle sue opere c’è sempre l’impronta di un sogno segreto.
Completare il suo romanzo è impossibile, il tempo non è sufficiente per fare tutto quello che desidera, il mondo non ha ancora concluso la sua follia, la guerra nel 1944 è ancora in corso sia in Europa sia sul Pacifico. La pazienza non è più sufficiente per resistere alla speranza di una rapida conclusione. Si sa che la storia non può ritornare indietro, ma quello che Man Ray scrive può anche essere considerato un romanzo politico: è la descrizione di una società disperata, di una società solitaria, condannata alla solitudine, di una società che ha vissuto l’esperienza dell’oppressione e della violenza, che ha soprattutto negato la libertà ai popoli ed agli individui. È questo il problema al quale Man Ray è sempre stato molto sensibile e che affronta in questo romanzo. Si è sempre considerato un uomo libero, un uomo indipendente, un uomo insofferente alle regole, un uomo a tratti irritabile, un uomo che non vuole aderire a nessuna corrente artistica, è un dadaista quando in America ancora non esisteva il dadaismo, è un surrealista amico e complice di tutti i surrealisti, ma non vuole essere condizionato da comportamenti troppo rigidi, perfino André Breton, che lo include nel suo Manifesto del Surrealismo, lo riconosce, ammette che Man Ray, perfino nell’interno del surrealismo può essere un ribelle, ma non verrà mai espulso dal movimento, come accadrà ad altri grandi pittori surrealisti. Man Ray va molto più lontano: è un anarchico rivoluzionario, può permettersi di sfidare le convenzioni, è contro ogni autorità, ma è rispettoso di ogni autorità, purché venga lasciato in pace. La prima cosa che ha fatto, per coerenza, è stata quella di cambiare il nome, ma a differenza degli altri artisti che utilizzano uno pseudonimo nasconde il suo vero nome durante tutta la sua vita. È un “Altro”, è qualche cosa di diverso, è un irregolare, è uno straniero che crea la sua propria patria in qualsiasi altro luogo della terra, è ebreo, ma non appartiene a nessuna religione, è americano, ma diventa francese, è francese e vive come un americano.
MAN RAY Chessboard 1942 Fotografia 13 x 17 cm Courtesy Fondazione Marconi
Quando nel 1940, incalzato dalla guerra, lascia l’Europa, non si ferma a New York, che è la città della sua giovinezza, è la città dove vi sono i suoi ricordi e le sue amicizie, dove vivono ancora parte dei suoi familiari, a New York non sarebbe più Man Ray, ma Emmanuel Radnitzsky, chi sa se ha notato che l’ultimo suffisso del suo cognome sky significa cielo (avrebbe potuto diventare la componente di un altro pseudonimo); ed allora parte per Los Angeles, che non ha mai visto, che è una città sconosciuta, perché Man Ray vuole ancora essere uno sconosciuto, è uno sconosciuto famoso, uno sconosciuto che comincia sempre tutto da capo. Dice che va a Los Angeles perché vuole riposarsi, dopo aver attraversato paradossalmente tutta l’America da costa a costa in automobile, ma Los Angeles non è una città dove un artista possa veramente riposarsi.
Il romanzo è stato materialmente scritto nel 1944, in realtà è stato mentalmente iniziato nel 1940 quando, sotto l’incalzare dell’invasione nazista, sente che un pericolo immenso lo sovrasta: la deportazione, la persecuzione, la prigionia in un campo di sterminio, la morte. Quando l’esercito tedesco, che è una specie di macchina inumana, irrompe in Francia, Man Ray ha probabilmente un attimo di panico. Sale in macchina con l’amica Adrienne Fidelin detta Ady e si dirige verso il sud della Francia. Vaga a caso per circa un mese, sta pensando in che maniera mettersi in salvo, ma, quasi illogicamente, quando i tedeschi occupano Parigi e il governo di Pétain firma un armistizio, ritorna a Parigi: è un atto di coraggio ed è anche una sfida inconscia. La guerra in quella Francia, che è stata sempre nel suo cuore, è finita, ma non è tranquillo, ed allora freddamente decide di giocare le sue carte contro gli invasori, di cui conosce la lingua, vuole mettere in salvo le sue opere, che affida ad un amico corniciaio, deve ritirare i soldi, di cui ha bisogno, dalla banca, incrocia per le strade i tedeschi e non può certamente amarli, ma, forse, passa inosservato, è inoltre un cittadino americano, ha un passaporto americano e gli Stati Uniti in quell’anno non sono ancora in guerra. Si può facilmente indovinare che non hanno alcuna simpatia per il regime nazista e che preferiscono aiutare l’Inghilterra con incessanti rifornimenti, ma per il momento è meglio non svegliare il can che dorme e tormentare i suoi cittadini che si trovano in Francia. Ci penseranno quegli stupidi giapponesi con l’attacco a Pearl Harbor a spingere gli Stati Uniti nel conflitto mondiale. Intanto Man Ray in quei giorni frenetici ha il tempo di mettere in ordine le sue faccende e di ripartire subito dopo verso la Spagna, in treno, dove incontra altri tedeschi, di cui finge di non conoscere la lingua, appresa sicuramente in ambiente familiare. Nessuno sospetta che sia ebreo, è uno sconosciuto ed è un artista. È al di sopra della mischia. Non poteva certamente rimanere nella Parigi fascista di Pétain e nella Parigi antisemita di Brasillach, di Drieu la Rochelle e di Céline.
Ha mille ragioni e le sue ragioni verranno perfino ricordate molti anni dopo, nel 2005, in una mostra intitolata Montparnasse déporté, presso il Musée de Montparnasse a Parigi, a cura di Sylvie Buisson, conservatrice dello stesso museo. Vengono esposte le opere che sessanta artisti ebrei, e non solo ebrei, hanno eseguito a Montparnasse e nei campi di sterminio, tra il 1940 ed il 1945, e sopravvissute alla distruzione della guerra, da cui non tutti quegli artisti riuscirono a sopravvivere. Provenivano da ogni parte del mondo: dalla Germania, dalla Pomerania, dall’Austria, dalla Galizia, dall’Ungheria, dalla Cecoslovacchia, dalla Russia, dall’Ucraina, dalla Bielorussia, dalla Crimea, dalla Lituania, dalla Siberia, dalla Grecia. È un avvenimento tragico di una vastità spaventosa, anche Man Ray avrebbe potuto fare parte di quegli artisti che ebbero una sorte peggiore. La mostra è poi passata al Museo della Memoria della Shoah di Gerusalemme ed infine al Museo Diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e della Libertà di Torino nel 2007.
MAN RAY Contraption (Marchingegno) 1944 Tecnica mista su legno 53,5 x 20 cm Courtesy Fondazione Marconi
Man Ray in quel tragico 1940 riesce a raggiungere il Portogallo e potrà finalmente imbarcarsi per l’America. Attraversa l’Oceano ed ha fortuna, poiché le acque sono già infestate da sottomarini tedeschi. Ci vorrà ancora un anno prima che avvenga l’attacco a Pearl Harbor, ma intanto va a vivere a Los Angeles, in una città che potrebbe correre i suoi pericoli. Pensa di essersi messo al sicuro, il luogo è accogliente, ma la storia diffonde i suoi incubi. La città non è poi così invulnerabile come sembra. Dopo l’attacco giapponese il panico si diffonde per tutta la costa californiana. I giapponesi hanno distrutto la flotta americana e logicamente potrebbero ora invadere l’America, se vogliono trarre le giuste conseguenze dalla loro politica bellica. Non è un’ipotesi del tutto assurda: perché mai i giapponesi avrebbero eliminato la flotta americana se non avevano l’intenzione di sbarcare in California? Sarebbe stata una tappa indispensabile per poter vincere la guerra. Perfino i generali e gli ammiragli giapponesi erano in grado di comprendere che non basta decapitare una nazione, bisogna andare fino in fondo ad un’operazione bellica così violenta. Altrimenti la loro aggressione sarebbe stata inutile, sarebbe stata un’azione gratuita, avrebbe consentito all’America di preparare una nuova flotta. L’unica speranza di vincere il conflitto sarebbe stata quella di portare la guerra sul suolo americano. Rinunciare a questo progetto, che era senza dubbio ambizioso e molto rischioso, significava mettere le basi per la loro prossima sconfitta, come poi è inevitabilmente accaduto. È lo stesso problema che si era posto Hitler: invadere l’Inghilterra sarebbe stato indispensabile per vincere la sua guerra europea. Solo questa invasione avrebbe consentito alla Germania di concludere favorevolmente il conflitto. Molti generali tedeschi lo speravano. Era lo stesso problema che Napoleone non fu in grado di risolvere e che lo condusse alla disfatta finale. Aveva gli uomini, ma non aveva le navi sufficienti per attraversare la Manica, ed è la stessa cosa di cui i tedeschi si resero conto a malincuore. Il Giappone aveva gli uomini e probabilmente aveva anche le navi, ma c’era un grande ostacolo, l’enorme distanza che separava il Giappone dall’America e la necessità di assicurare all’esercito invasore i necessari rifornimenti. Il Giappone e la Germania rinunciarono, e si condannarono alla sconfitta. È questo che Man Ray vuole dire scrivendo il suo romanzo. Di questa atmosfera di panico, che si era diffusa lunga la costa del Pacifico, si ricordò pochi anni dopo lo scrittore di fantascienza Philip K. Dick, con il suo famoso romanzo, pubblicato da Putnam nel 1962, intitolato The Man in the Castle, diventato, nel 1997 nell’edizione italiana Fanucci, La svastica sul sole. Non è un semplice romanzo di fantascienza, Philip Dick immagina che gli Stati Uniti siano stati sconfitti e siano stati invasi dai giapponesi e dai tedeschi. Narra una storia immaginaria che avrebbe potuto essere vera, e per amore del paradosso nell’interno del suo romanzo esiste un secondo romanzo, clandestino che dice tutto il contrario, intitolato The Grasshopper Lies Heavy (La cavalletta non si alzerà più), dove viene narrato un fatto altrettanto paradossale, la vittoria degli Stati Uniti, ma la fantascienza ha sempre amato manipolare la storia, quella del passato e quella del futuro, soprattutto quando le cose possono essere tranquillamente scambiate tra di loro; è un’operazione mentale che la filosofia ha fatto molte volte quando ha cercato di capire e di interpretare le irregolarità del caso e le infinite varianti che reggono il corso degli eventi. La storia reale può essere modificata dalla storia immaginaria. Non capita solo agli scrittori di fantascienza, ma agli storici di professione che mettono in dubbio la realtà degli eventi. Accade con maggior ragione agli uomini che si sentono imprigionati negli ingranaggi della storia e cercano di fuggire il più lontano possibile dalla morte, come ha fatto Man Ray, quando, consapevole del pericolo che avrebbe potuto correre, è ritornato precipitosamente in America prima che la situazione peggiorasse, se era possibile peggiorarla ancora di più con i tedeschi che avevano invaso la Francia e che erano ben visibili per le strade di Parigi. Man Ray, che si è trovato a faccia a faccia con quegli energumeni, ha avuto fortuna, poiché nessuno in quel momento ha sospettato della sua condizione di ebreo, ma il pericolo era ben visibile perfino nel romanzo di Dick. Uno dei protagonisti, che riflette bene le teorie razziali del vincitore, afferma: “Se la Germania e il Giappone avessero perso la guerra… oggi gli ebrei sarebbero i padroni del mondo, attraverso Mosca e Wall Street”. Era quello che pensava Hitler nelle sue allucinazioni quotidiane. Man Ray credeva d’essersi messo in salvo a Los Angeles, ma non tutti erano di questa idea. Perfino i fumetti in quella stesa epoca condividono queste apprensioni. Nel giugno 1943, nel pieno della guerra del Pacifico, dagli Studi della Walt Disney di Hollywood esce una nuova avventura di Topolino, disegnata da un autentico artista, Floyd Gottfredson, intitolata Mickey Mouse and the Nazi Submarine (pubblicata anni dopo in italiano con il titolo Un’avventura di Topolino nella II Guerra Mondiale): i tedeschi sono riusciti ad introdurre un mini sommergibile in una città di mare che potrebbe essere benissimo Los Angeles. Il cinema a sua volta si è occupato dal problema. Nel 1970 il regista Steven Spielberg realizza un film paradossale, intitolato 1941 Allarme a Hollywood, nel quale immagina che un sommergibile giapponese nel dicembre 1941 sta per avvicinarsi alla città e potrebbe dare inizio a quell’invasione tanto temuta. La narrazione non appartiene alla fantasia, ma allo stato d’animo della popolazione che viveva lungo le coste californiane. Avrebbe potuto diventare reale. Numerosi sono stati i romanzi ed i film che in seguito hanno esaminato la storia sotto punti di vista grotteschi, ma possibili. I paradossi sono infiniti e si rincorrono l’uno con l’altro, in una lunga catena di eventi, ma gli abitanti di Los Angeles e della California nel 1941 e negli anni successivi non erano affatto tranquilli: l’Inghilterra non era stata invasa, ma era sotto continui bombardamenti. Gli Stati Uniti non erano stati invasi, ma dovevano combattere su un fronte vastissimo tra le insidiose isole del Pacifico, ed il pericolo di un’invasione, o almeno di un’aggressione dal mare o dal cielo, non era stato del tutto eliminato. Man Ray era in una fortezza, ma era andato a rifugiarsi in una città che avrebbe potuto essere aggredita. La sua angoscia si riflette nel romanzo 1944. In quegli anni probabilmente Man Ray avrebbe potuto leggere i romanzi di Raymond Chandler (1888-1959) che si svolgevano a Los Angeles, poiché, come dice lo stesso Man Ray, “lo scrittore è un investigatore”: Farewell, my Lovely (Addio, mia amata) del 1940, o High Window del 1943, o The Lady in the Lake del 1943, o addirittura il suo capolavoro The Big Sleep, che era stato pubblicato nel 1939, protagonista l’investigatore Philip Marlowe che indaga sui truci delitti che avvengono a Los Angeles, tradotto poi nel film omonimo nel 1946, quando Man Ray si trovava ancora in quella città, interpretato da Humphrey Bogart e Lauren Bacall. La misteriosa Los Angeles che Robor percorre è già una città perduta, è una città posseduta da presenze aliene; Robor è l’uomo metafisico del XX secolo, è l’uomo infinito che Man Ray ha già rappresentato in un enigmatico quadro del 1942: L’homme infini, proiettato verso una dimensione sconosciuta. Durante il 1944 un famoso scrittore di fantascienza, Alfred E. van Vogt, scrive proprio a Los Angeles (dove si è trasferito in quell’anno, proveniente dal Canada) uno dei suoi famosi romanzi intitolato The World of null-A, che fu poi pubblicato solo verso la fine del 1945 sulla rivista Astounding, molto diffusa da anni a Los Angeles. Si tratterà soltanto di una coincidenza o di una straordinaria assonanza culturale, ma la Città della Macchina, di cui parla van Vogt, è la stessa che Man Ray descrive nel suo romanzo. Anche l’opera di Man Ray appartiene al mondo del non-A (A come Aristotele).
Probabilmente Man Ray alla fine del conflitto avrebbe potuto rimanere per sempre a Los Angeles ed in California, dove il successo era ormai arrivato, ma preferì ritornare nel 1951 a Parigi, che è ormai diventata una città periferica, ma è la città del dadaismo, è la città del surrealismo, è la città dove convergono ancora i maggiori artisti dell’epoca, è la città di Picasso, di cui è stato amico. È proprio lì che decide di terminare idealmente il suo romanzo: con un ritorno alle sue vere origini artistiche, in quell’Europa dove ha le sue antiche radici familiari. 1944 conclude un’epoca terribile.
Janus
MAN RAY L’équivoque 1943 Tempera su cartoncino 35 x 28 cm Courtesy Fondazione Marconi
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Man Ray
1944
Pagine: 184 + compendio pagg. 40
Formato: 15×22
Prezzo: € 20,00
ISBN: 978-88-6403-132-3
Uscita: novembre 2012
Lingua: italiano, inglese
Il testo 1944 viene pubblicato per la prima volta in inglese, nella sua riproduzione anastatica da Carlo Cambi Editore, accompagnato da una nuova traduzione in italiano (la prima versione italiana apparve nel lontano 1981 nell’interno del volume Man Ray Tutti gli scritti, curato da Janus, Feltrinelli editore).
1944 fu scritto a mano da Man Ray in un grosso quaderno rilegato, sul dorso una piccola etichetta disegnata dall’artista. Una grossa macchia di inchiostro nero compare sulla prima pagina, quasi a rappresentare l’origine da cui tutte le parole del testo scaturiscono.
Il romanzo, diviso in tre capitoli, è introdotto da una breve prefazione di Man Ray, in cui cerca di definire il carattere della parola e da un testo critico scritto appositamente da Janus, il più autorevole studioso di Man Ray e amico dell’artista. Fu proprio a lui che Man Ray affidò le sue pagine. Incompleto nella parte iniziale e in quella finale, le prime pagine della versione inglese sono state strappate misteriosamente dopo la morte dell’artista e la storia si interrompe all’improvviso senza una conclusione. Questa incompletezza è parte integrante del suo fascino.
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Man Ray
Man Ray (Emmanuel Radnitzsky) nasce a Philadelphia nel 1890 da genitori ebrei di origine russa che erano emigrati negli Stati Uniti alcuni anni prima. Dopo gli studi secondari e i primi corsi di disegno industriale, frequenta il Ferrer Center ed entra in contatto con Alfred Stieglitz e gli ambienti dell’avanguardia newyorkese. Dopo le prime opere di ispirazione cubista avvia la sperimentazione di varie tecniche – collage, sculture e assemblaggi, pittura ad aerografo – e inizia a dedicarsi alla fotografia. Insieme a Marcel Duchamp è il principale animatore del dadaismo newyorkese e promotore di numerose iniziative, dalla fondazione della Società degli artisti indipendenti (1916) e la “Société Anonyme Inc.” (1920) alla pubblicazione della rivista “New York Dada” (1921).
Nascono in questa fase i primi “oggetti d’affezione”, tra cui il celebre Enigme d’Isidore Ducasse. Nel 1921 si trasferisce a Parigi, dove ritrova Marcel Duchamp, e nello stesso anno ha una personale alla Librairie Six. Realizza i primi Rayographs, che pubblica nel volume Champs délicieux (1922) con prefazione di Tristan Tzara. Dopo la partecipazione al Salon Dada, che si tiene nel 1922 alla Galerie Montaigne, lavora al film Retour à la raison e si lega al gruppo dei surrealisti, con i quali espone alla Galerie Pierre nel 1925 e in tutte le mostre successive. Rimane a Parigi fino al 1940, affermandosi come uno dei migliori interpreti della poetica surrealista, con dipinti, assemblaggi d’oggetti, film d’artista e sperimentazioni fotografiche, continuando ad esporre sia in Europa che in America. Dopo lo scoppio della guerra si reca negli Stati Uniti, a Los Angeles dove rimane fino al 1951. Durante il soggiorno americano si dedica soprattutto alla pittura realizzando la serie Equations shakesperiennes e Alphabet for Adults. Tornato a Parigi, continua la sperimentazione fotografica, la creazione di dipinti e oggetti d’affezione. Nel 1959 l’Istitute of Contemporary Art di Londra gli dedica una grande antologica e due anni dopo gli è conferita la medaglia d’oro per la fotografia alla Biennale di Venezia. Nel 1966 ha la prima grande retrospettiva a Los Angeles al County Museum of Art. Nel 1970 si tiene una grande retrospettiva itinerante in varie sedi d’Europa, che si inaugura al Museum Boymans van Beuningen di Rotterdam. L’artista muore a Parigi il 18 novembre 1976. Juliet morì nel 1991.
Janus
Janus ha curato la sua prima esposizione di Man Ray nel 1969 a Torino (Galleria Il Fauno).
Ha continuato a studiare e ad analizzare tutta la sua opera, attraverso molte esposizioni: a Ferrara nel 1972 (Palazzo dei Diamanti), a New York nel 1974 (New York Cultural Center), a Parigi nel 1974 (Galerie Iolas), alla Biennale di Venezia nel 1976, ancora a Parigi nel 1981 (Centre Pompidou), a Milano nel 1998 (Fondazione Mazzotta), a Lugano nel 2011 (Museo d’Arte) e con una monografia nel 1975 (Fabbri, Milano; Hachette, Paris) e soprattutto attraverso la pubblicazione di tutti i suoi scritti nel 1981 (Feltrinelli), un’opera ancora unica nel campo editoriale.
E’ stato spesso vicino a Man Ray, che ha definito, in una sua dedica, “mon témoin”.
MAN RAY Study for Leda & Romeo or Juliet 1940 Matita su carta 45,9 x 30,5 cm Courtesy Fondazione Marconi
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MAN RAY 1944
mostra di Man Ray e presentazione del romanzo inedito 1944
Fondazione Marconi Arte moderna e contemporanea
Via Tadino 15 – 20124 Milano
Tel. 02 29 41 92 32 – fax 02 29 41 72 78
Inaugurazione: 6 novembre ore 18
Durata della mostra: 7 – 24 novembre 2012
Da martedì a sabato: ore 10-13 e 15-19
Ingresso gratuito
Ufficio stampa: Cristina Pariset – tel. 02-4812584 – fax 02 4812486
cell. 348-5109589 cristina.pariset@libero.it
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MAE Milano Arte Expo -milanoartexpo@gmail.com- ringrazia Cristina Pariset, ufficio stampa, e Giorgio Marconi di Fondazione Marconi Arte moderna e contemporanea di Milano per le immagini, le notizie della mostra di Man Ray e la possibilità di pubblicare l’introduzione di Janus al romanzo 1944.
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