Ogni onda sa di essere il mare.
Ciò che la disfa non la disturba
perché ciò che la infrange la ricrea.
(Lao Tse)
Ciò che il pensiero raddrizza e delinea, l’anima piega e spruzza sulla tela. C’è poco altro da aggiungere al ritratto di un uomo, salvo che ogni pennellata è necessaria, che se qualcosa schizza via dall’insieme bisogna lasciarla andare senza rimpianti, che se stai andando bene o male te lo può dire solo una voce privata, un parlatorio di immagini in una segreta presso cui ognuno sta come recluso, in viaggio per tornare a se stesso sopra un mondo rovesciato. Ogni cosa ha il diritto di sbugiardare la faccia relativa che lo riguarda.
E’ vero, gli americani sono molesti, quando li incontri in viaggio fuori casa ti sfiorano col maleodore del senso della propria identità, un sentirsi ancora centro e sorprendersi del mondo che ha abitudini diverse dalle proprie. Gli americani fanno spesso la figura dei turisti di se stessi e a se stessi ritornano sempre. In effetti li senti, gli piace da matti sollevare il tono della voce che è già di per sé alto, imbastito, incartato in artifici parafonetici e ammiccamenti speculari che danno l’idea di un media sempre acceso, connesso, post-prodotto e lanciato nell’etere per colpire.
E anche vero però che pochi incontri riescono a essere intensi e illuminanti come quelli con un americano maturo che viaggia da solo. Ce ne sono diversi in giro, ne ho incontrati quattro o cinque nell’ultimo mese, in Centramerica. Il primo veniva da El Paso, sulla frontiera col Messico, e non parlava una parola di spagnolo. Aveva un grande zaino sulle spalle e si preparava a dieci ore di trekking per raggiungere la bocca del vulcano, aveva una faccia rilassata e aperta e sorrideva delle proprie mastodontiche inattitudini.
L’ultimo avrà avuto settant’anni e con lui mi sarei fermato volentieri un paio di giorni dopo aver sentito la dolcezza del tono della voce, il parlato chiaro dell’immagine di se stesso, un ex-broker impaccato di denari, ex-spennapolli e potenziale omicida che alle spalle aveva abbandonato già tre o quattro vite e identità intere. Girava il mondo con l’orgogliosa canizie rivestita di magliette alternative da sbarbo, sguardo infuocato e comprensivo, velocità e tono variabili, una modulazione di savoir-faire che inchiodava alla parola, all’esserci pienamente, era magnetico come un maledetto santone del dopobomba.
All’aeroporto di Madrid Barrajas ho fatto uno stop-over di cinque ore dopo nove di pullman e undici di volo in cui non sono riuscito a dormire un minuto, alla fine di un lungo itinerario appassionato. E’ stata un’ecatombe del pensiero lineare, un trionfo dell’imprecisione del parlatorio animistico in un carcere di stanchezza. Parecchie oscurità hanno ballato in assenza di controllo vendicandosi di me, gli istinti sollevati dal torpore della vita automatica, insensata, che la stanzialità dei ruoli sociali classici di solito ci impone hanno preso il controllo e l’articolo che pensavo di scrivere sul Nicaragua se n’è andato per conto suo a entreneuse.
Al Viavia Hostal di Leòn, piuttosto, le tre di notte le ho fatte prendendo a pugni un ventilatore rumoroso che non sapevo se fosse meglio o peggio del cercare di dormire nel calore della stanza, l’ho preso a pugni fino a staccarlo dal muro.
Nelle pause del mio incontro di boxe, all’angolo del sonno che stava per calare, giovani alternativi backpackers del mio occidente rientravano nelle stanze accanto sacramentando alcol e nevrosi precoci, insoddisfatti della notte centramericana da poco trascorsa, votati a quel deplorevole litigio di coppia che non si soffoca e non esplode mai ma rode il sonno di tutti intorno fino a venti-trenta metri, oppure semplicemente persi nel perimetro di voce alta delle proprie minchiate aleatorie, uno shampoo dimenticato, una fucking Jenny che non si trova, una conferma dell’ovvio provinciale che stiamo diventando tutti.
La mattina dopo ho realizzato una magnifica sintesi pop. Il popolo degli alternativi in viaggio globale si classifica per il tipo di calzature inforcate: sportive, birkenstrock o semplici ciabatte, di quelle che fanno cik-ciak ostentando cheap coolness. Io, come tutti gli attempati della specie, sono tendenzialmente un tipo due, per la cronaca, difficile dire chi tenga più ragione e suola, nell’incertezza ho sviluppato un saldo appiglio provvisorio: è meglio diffidare dalle cik-ciak, sono scomode e sciatte, spesso e volentieri, inoltre si associano al settanta per cento con questi giovani di ultima generazione che sono sempre connessi, incuffiettati, che si portano il Pad anche al cesso, che non sollevano quasi mai lo sguardo che al cinguettio dei propri Samsung-android.
Così alle sette della mattina successiva ho raddrizzato alla meglio il ventilatore abbattuto per non farmelo mettere in conto, ho rifatto velocemente i bagagli e me ne sono andato a cercare un hostal locale, più spartano e meno molesto.
Andando via, sono passato sulla piazzetta davanti all’università dove i giovani Leonesi si riuniscono a decine per giocare a calcetto, a basket, per saltare sugli skateboard, chiacchierare, preparare accoppiamenti o quant’altro di cool la vita riservi. Si vacilla un po’ in questo spiazzo dominato dal grande murales che rappresenta crudamente, in una grande drammatica scena collettiva, l’esercito di Somoza che il ventitre luglio del ’59 apre il fuoco sugli universitari che manifestano e ne ammazza quattro.
Leòn è gonfia del sangue rappresentato sui murales, piena di questi sacrari della memoria rivoluzionaria che riempiono angoli di mura dove sono ancora evidenti i colpi di mitragliatrice. I ragazzi di Leòn giocano a calcetto per ore davanti all’immagine del loro ’59, quando una squadra segna un gol nemmeno si esulta tanto, i giocatori escono velocemente ed entrano altre squadre improvvisate, i movimenti sono perfetti, magnetici, paiono organizzati da una regia inconsapevole.
Avrei voluto chiedere a qualcuno quanto e se le loro ciabatte fossero più consapevoli e ancorate alla memoria di quelle degli analoghi occidentali Androidzati che popolano il Viavia hostal, ma ho avuto paura che qualcuno potesse ridermi in faccia e sono andato via senza giocare.
Il tema delle scarpe mi ha comunque inseguito fino a Managua, nel barrio Marta Quezada, dove sono andato a passare una notte. La capitale qui è una città niente accogliente, un posto di cui le guide di viaggio e i locali si premurano di mettere avanti la pericolosità.
Ai Nica, come a tutti i latinoamericani, piace ostentare un tantino di anima scura, un gioco che raccoglie parte del mito fondante post-colombiano costruito su secoli di assassini e senzalegge che hanno percorso in lungo e largo storico-geografico il continente.
Difficile dire quanto si esageri su Managua, di certo mi son portato via che alcune quadras del Marta Quezada, intorno al cui perimetro ho girato con cautela, sono punteggiate dalle classiche occhiate opache di certi locali che valutano a occhio e croce quanto vali complessivamente come preda.
Le scarpe, dunque, le ho ritrovate in una viuzza laterale ambigua, in un cortile di erbacce che stava davanti al bugigattolo di un ciabattino, un riparatore di calzature e la sua boutique all’aria aperta, il suo antro scuro, piratesco, annunciato da aforismi autoprodotti, da immagini rivoluzionare, dalla presenza defilata di un Gesù.
Ho pensato subito che quest’incontro inaspettato rappresentasse perfettamente il centro tranquillo del viaggio, l’occhio del ciclone di sensazioni che mi portavo dietro e anche l’unico punto dove andare ad essere, volendo carpire qualche abbozzo di senso profondo del luogo, qualora a qualche turista interessasse davvero.
E questo è tutto ciò che non avrei voluto dire, una collezione di scarti percettivi, un giretto narrativo intorno alla bocca fumante del vulcano.
C’è una cosa che non mi torna, al fondo di tutto, tenendomi fedele alla regola del palo-in-frasca che ha guidato questa scrittura stanca, concepita nella depressione di Madrid: si prenda il Giardino delle Delizie di Bosch come test di Rorschach e si valuti dove si colloca la disposizione dell’animo nel sorbirlo, se bolle che salgono al cervello o vuoti che scendono negli intestini.
Ciò che quell’immagine rappresenta è probabilmente lo spaccato di un terrore che ci rappresenta intimamente come specie, un fatto di importanza abissale per l’evoluzione di quell’automa umano che l’universo ci ha consegnato alla nascita.
Tremenda è la potenza del dio-natura e quella della rivoluzione, così come il negozio di scarpe sfondate del ciabattino di Managua testimoniava bene, in mezzo c’è l’infinita collana di aforismi che saremmo tenuti a distillare nel breve percorso che camminiamo tra forze estreme: il cannocchiale della coscienza.
E l’Arte ci fa spesso, troppo spesso, l’effetto del turismo globalizzato, omologa, blandisce, seduce, rende estetico e periferico ciò che ci riguarda invece profondamente, ci impedisce letteralmente di viverlo e liberarcene per sviluppare nuove forme.
L’arte è il processo di salvazione dell’Uomo, nobilita l’individuo che si spende raschiando il fondo del barile per dare forma, forse, rende certamente asini tutti quelli che la assumono via intelletto.
E un viaggio, parimenti, è sempre una faccenda un po’ laida, se lasci spruzzare l’anima dei luoghi fuori dal percorso lineare, un atto di creazione di luce che passa per tutti gli angoli scuri che si riesce a visitare.
E’ per questo che la natura odia le ciabatte, infine, e non c’è niente di cui vantarsi, né che possa farci sentire migliori.
Conviene muovere il culo, piuttosto.
di Alessandro Gabriele