Il protagonista del libro, Giorgio Aguirre, è uno studente di medicina che non ha nessuna voglia di seguire le orme dei genitori (entrambi medici).
Giorgio vuole fare altro nella (e della) sua vita. E questo altro è in qualche modo legato a un “qualcosa in più” (una qualità?) che lo porta a diventare radiologo industriale in un’officina che produce fiancate per elicotteri. Questo “qualcosa in più” è una sorta di occhio assoluto capace di cogliere i difetti che nessun altro occhio umano sarebbe capace di individuare.
Ma fino a che punto questa caratteristica è “dono”? Non sarebbe meglio chiamarla, in qualche caso… “maledizione”?
Perché la facoltà percettiva di Giorgio va ben oltre il mero aspetto visivo… e talvolta diventa davvero scomodo gestire certe situazioni. E la capacità di individuare i difetti, ti si può anche ritorcere contro. Per questo, forse, Giorgio cerca di sfuggire a se stesso e agli altri andando in giro per il mondo, facendosi attraversare da relazioni amorose che - nella maggior parte dei casi - non gli lasciano addosso impronte tangibili.
Alle sue spalle, il Rospo: un uomo incontrato nel corso di un’esperienza lavorativa, che gli trasmette il mestiere e molto altro: una intera filosofia di vita. Il Rospo diventa l’amico per la pelle, una sorta di padre a cui fare riferimento, ma pure – a volte – un figlio da accudire… fino all’ultimo giorno.
Con una scrittura di alta qualità capace di inglobare efficacemente trama, personaggi e dialoghi - e che attraversa la Storia del nostro paese, dall’omicidio di Moro ai nostri giorni -, Defilippi narra una storia vibrante dove anche il possedere un “qualcosa in più” rischia di trasformarsi in inevitabile mancanza. Perché, alla fine, guardando dentro e fuori di noi bisogna forse rassegnarsi al fatto che manca sempre una piccola cosa.
Sono molto lieto di discutere di questo libro (e dei temi da esso trattati), approfittando della presenza e della disponibilità dell’autore (che vi presenterò meglio nell’ambito della discussione).
Per favorire la discussione provo, come sempre, a porre qualche domanda.
La precisione, la pignoleria, lo scrupolo… sono sempre pregi? Quand’è che rischiano di trasformarsi in difetti?
Dire a ogni costo “le cose come stanno”… è sempre utile?
Raccontare “verità scomode”, che rischiano di mettere in cattiva luce chi le proferisce, è sempre un dovere? Quand’è che - viceversa - il “tacere” può essere considerato una sorta di diritto a tutelare se stessi?
Sulla copertina del libro leggiamo questa frase: “Così si proteggeva dalla sofferenza, nell’unico modo che gli umani conoscono”.
Qual è - a vostro avviso - il modo (l’unico) che gli umani conoscono per proteggersi dalla sofferenza?
Vi invito a rispondere alle domande. Sull’ultima, Alessandro Defilippi ci fornirà la sua risposta alla fine della discussione.
Di seguito, la recensione del libro pubblicata su Tuttolibri e firmata da Lorenzo Mondo.
Massimo Maugeri
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da Tuttolibri – LA STAMPA
del 10 aprile 2010
recensione di Lorenzo Mondo
Giorgio è il protagonista di un romanzo di Alessandro Defilippi (nella foto), che prende il suo titolo da una citazione di Pessoa, Manca sempre una piccola cosa.
Un personaggio assolutamente originale, dotato di una vista acutissima, quasi una preveggenza, che gli permette di scoprire nelle lastre lattiginose le minime, inafferrabili imperfezioni dei materiali. Così, fin dal suo primo lavoro in una fabbrica di elicotteri, riesce a evitare disastri, suscitando nei colleghi, insieme all’ammirazione e all’invidia, un vago senso di paura. Si sente invece spronato dal vecchio Rospo, «un tecnico magro e lunare», una sorta di gnomo affettuoso e filosofeggiante, che pretende una dedizione assoluta al Mestiere, inteso come una ricerca delle Ombre, attraverso le quali occorre passare «per non restare bestie, per andare oltre».
Incalzato da una fredda irrequietezza, Giorgio lascia Torino (individuata con affettuosa aderenza in luoghi deputati e nei quartieri operai) e si trasferisce prima in Belgio e poi in Alaska, a divinare falle nelle fiancate di aerei e nei condotti petroliferi. Soltanto materne o imperiose figure di donne sembrano scuotere, nell’accensione dei sensi, la sua atonia, senza compromettere il suo disimpegno, il suo oscuro desiderio di libertà.
Il racconto di Defilippi ci consegna graffianti ritratti, nitide aperture su luoghi e paesaggi agli estremi confini del mondo, attraverso un sapiente e concitato dialogare, effettivo e mentale. E colpisce inoltre la sua confidenza, frutto di accurata documentazione, con tecniche e mestieri inusitati. Scopriremo intanto che le portiere di un aereo o le piastrelle di uno shuttle rappresentano per lui un inutile diversivo rispetto alla detestata medicina, perché la sua vista è portata inevitabilmente a individuare anche le magagne fisiche e morali degli uomini. Si spiega con questo il suo andare ramingo, la sorda chiusura agli affetti, l’egoismo che risulta con ogni evidenza autoprotettivo: «Come se delle cose, delle persone, lui non vedesse che i difetti, la mortalità. E non gli importasse che questo». Vedere dappertutto la rovina e la morte è il peccato che gli rimprovera il Rospo. Ma questa disposizione «viziosa», a quanto sapremo, è dovuta a una latente malattia degli occhi che ha acuito paradossalmente la sua vista.
Giorgio rientrerà a Torino in seguito alla morte del padre, accudirà la madre inferma, mediterà sulla lezione del Rospo, che lo esorta a un universale sentimento di pietà e alla serena accettazione dell’«infinito oscillare delle cose e delle vite», a una conclusione che è anche un inizio, mentre sul passare degli evi e delle generazioni «scivola l’ombra di Dio».
Qualcuno, più provveduto, sentirà correre nel sottofondo la speciale cultura dell’autore, che professa la psicoanalisi di scuola junghiana. Di certo, la mutazione di Giorgio è propiziata dall’amore per una donna; così forte che resiste, in una inattesa propensione al perdono, a un provvisorio, cocente disinganno (e in questa vicenda, nella sua oltranza, a noi, pur dotati di vista mediocre, sembra di avvertire una piccola falla). Ma conta anche nel rinnovamento la sua ribellione alle lusinghe di loschi speculatori edilizi, incuranti della perdita di vite umane; perfino, sintomo di guarigione in un lavacro di umiltà, il suo scacco nel prevedere una sciagura che non ci sarà. Quasi il dissiparsi di un dono che era diventato una maledizione.
Manca sempre una piccola cosa è un bel romanzo, denso di riferimenti culturali, che riesce tuttavia a essere affabile e coinvolgente. Degno, per l’uno e l’altro motivo, di attenzione e consenso.