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Mancando a se stesso: il canto alla dissipazione di Francesco Forlani

Creato il 19 febbraio 2012 da Fabry2010

Pubblicato da lapoesiaelospirito su febbraio 19, 2012

Mancando a se stesso. Il canto alla dissipazione di Francesco Forlani.

Di Livio Borriello

Che si può dire con le parole? Le parole possono dire ciò che siamo? Ciascuno di noi, in realtà riesce a dire qualcosa di ciò che è dicendo cose che non è, e lasciando quindi inespresso quel che era. La cosa si complica nel caso di Francesco Forlani, che sembra manifestare una certa renitenza ad essere qualcosa, o almeno qualcosa di fissato. Forlani è infatti un dissipatore, un dispositivo di dispendio che esiste in quanto si rilascia e sperpera nel mondo. Forlani si produce nel mancare a se stesso, è quella cosa che è dove prima sarebbe stato, e dove dopo era stato, perché non è mai quello che è appena stato e che sta or ora per essere. E’ una migrazione continua, un esiliarsi incessante, una sparizione perpetua, che come certi animali selvatici è identificabile solo dalle tracce del passaggio, borre, escrementi, carcasse delle vittime, impronte, ricordi annebbiati di chi l’ha visto, che però non sa dire bene se si trattava di un gatto, una pantera fuggita dal serraglio di un miliardario, lo yeti nemmeno tanto rasato, un’ipnagogia da sbronza, o il pezzo di un oggetto esploso che sarà poi ritrovato nei paraggi. E’ il nomade perfetto, il girovago e saltimbanco. Si firma spesso effeffe, e in questo senso l’ho chiamato talvolta l’effeffervescente. Con termine moderno, è il performativo, o il processuale, colui che si definisce in itinere.

Ne consegue che la sua dimensione esistenziale è il viaggio, quella narrativa il romanzo picaro, quella espressiva e stilistica, di volta in volta, il video extravagante, la performance teatrale, la scrittura evasiva e noncurante, o addirittura, quella sorta di linguaggio extradoganale e metastorico che si è inventato a proprio uso, e che si potrebbe chiamare il forlanese. Infine per Forlani vale molto l’amicizia, che è quella forma di rapporto sociale libero e liquido, come si dice oggi – il solo non istituzionalizzabile – che gli permette di amare senza essere qualcosa. Queste dimensioni sono tutte presenti in Chiunque cerca chiunque, romanzo autoprodotto (ma la sua genesi via facebook è stata complessa) in 200 copie numerate, che narra con postuma leggerezza e assennatezza i suoi avventurosi anni ’90 a Parigi. Il romanzo (se non è solo un memoire) è un canto alla città, che nel suo immaginario ne rappresenta il tempio, ma anche a una certa età della vita, e alla letteratura. In un altro senso si potrebbe dire che l’oggetto del romanzo è Parigi, e anzi lo sfondo parigino, così come noi lo vediamo letterariamente. Lo stile fascia con volute avvolgenti, con l’immediatezza e fluidità del parlato, questo oggetto mutevole, ma è anche carico di tutte le reminescenze della grande letteratura francese. Ecco ad esempio che in questa frase: “ ogni tanto ci viene a trovare Roger K. ma il più delle volte siamo noi ad andare da lui che così ci capita, ed era effettivamente capitato, ma non a noi, di incrociare Marguerite Duras o Leo Ferrè, molto amici del nostro bandito preferito “, sembra di ritrovare l’articolazione del periodo a piani differiti di Proust, il ritmo colloquiale di Celine, i personaggi di Dumas o Balzac, il tutto disposto in uno schema che “à la Perec” segue il percorso del Monopoli francese…

Nei momenti più intensi, poi, il sogno, la preghiera o il desiderio, Forlani si affida a quella neolingua che costituisce una delle sue invenzioni più compiute, e di cui ha dato già splendidi esempi nelle pagine del blog Nazione Indiana (si veda ad es. Malalengua, 16 novembre 2009). La cosa interessante di questo forlanese è che ci porta in un luogo che non esiste, e che tuttavia resta convenzionale e condiviso come deve essere una lingua, non è quella contraddizione in termini che è una lingua privata. Mi viene in mente Landolfi, che in Des mois confessava di aver progettato da ragazzo l’invenzione di una lingua propria, ma poi nella maturità ne aveva costruito una spesso indecifrabile, come nell’esperimento estremo della Passeggiata, ma prettamente da vocabolario, e dunque codificata. Il forlanese è un codice da laboratorio come l’esperanto, cui in effetti somiglia, ma e-laborato nel corpo (seppur di letterato), in vivo e non in vitro, e dunque in una condizione sperimentalmente corretta. L’errore dell’esperanto era infatti appunto quello di trascurare la natura fisica della lingua, che trasferisce e disloca nello spazio immateriale e umano del significato i pesi, i volumi, le temperature e i colori del significante, le posture della glottide, l’idraulica dei flussi ormonali, la prossemica e la topografia della carne partoriente e emittente. Forlani contamina, impasta, metabolizza: il francese, il napoletano, l’ispanico, l’umbro arcaico di Iacopone e degli scongiuri cassinesi, il proto-italico del notaro Adenolfo e i pastiches di Folengo, lingua d’oc e lingua d’oil, forse qualche rigurgito dell’estinto proto-nostratico del sapiens, e qualche segmento alla deriva di polinesiano, amerindio o centro-africano. L’importante per lui è negare il tempo e lo spazio, come fa nei suoi photoshoperò, video surreali, corrivi e arlecchinali, in cui trapassando diversi livelli di linguaggio elabora una sorta di percezione nuova, radicata nel corpo e non nelle culture e nelle loro coordinate . Costruendo questa lingua pre-babelica, ubiqua, trans-etnica, Forlani in effetti cerca un punto di coincidenza fra il suo corpo e il suo sogno, o il suo non-corpo, il punto in cui il corpo si dissolve, si scatena da spazio e tempo, e vaga angelicamente in un etere al di sopra delle dogane.

Qua e là la narrazione presenta delle cadute di tono. Viene il dubbio a volte che la misura del romanzo, presentando il rischio che il dispendio diventi dispersione, non sia la più adatta a Forlani, che crea forse oggetti più compatti e ineccepibili quando concentra la sua eversione linguistica nei photoshoperò, nelle performances e in certi scoppiettanti saggetti. Lo stesso uso del parlato, come esemplifica Celine che scriveva 1000 pagine per pubblicarne 100, richiederebbe maggiore filtrazione, se l’universo scritto ha un senso proprio come sedimentazione di quello detto. D’altronde, anche il romanzo rappresenta un momento della sua fluvialità esuberante e effusiva… e poi come interrompere il continuo dei ricordi che lo investe, a chi rinunciare dei suoi eroi del dispendio, come spezzettare e ricostruire le tranches de vie, le atmosfere, le emozioni del tempo sacro e inviolabile in cui “eravamo invincibili e felici”? Ecco perché conviene godersi senza pensarci la sua narrazione, come se fosse una cosa della vita più che della letteratura, che proprio per questo, magari, ha più possibilità di diventare poi una cosa della letteratura.


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