Manhattan di Woody Allen è, in effetti, un esercizio di riscrittura da parte di un io narrante. Lo dico a prescindere dalla ben nota tendenza di Woody Allen a ripetersi o, per usare un eufemismo, a riproporsi - ciò che rende i suoi film un esercizio di pazienza. Voglio dire: posso guardare Billy Wilder, film dopo film, come ho fatto io quest'estate, imparando a riconoscerne il tratto e persino i vezzi, ma rimanendo incantato dalla sua maestria professionale. Col maestro dello humour ebraico americano, di norma a un certo punto scatta una reazione di fastidio. D'altra parte, Manhattan mi piace adesso, nonostante tutto questo, e mi ispira tenerezza.
La storia è quella dell'impossibile ricerca di una stabilità sentimentale, con base a New York e fughe, come sempre, in Europa: Londra, Parigi, capitali altrove. Il mondo americano di Woody Allen è pieno di centri fuori da Manhattan, eppure il fulcro intellettuale della sua poetica è tutto in quel sincretismo americano - che torna anche negli ultimi film come Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni - e in un'ecumenica, estremamente disinvolta, eresia. L'eresia del dubbio, dell'inadeguatezza a un sistema, che non diventa mai bestemmia, ma si risolve in un nichilismo targato come pochi altri con un nome e un cognome.
Quando Woody Allen, il nome e il cognome di cui sopra, fece questo film, fu in grado di riscriversi come poi non avrebbe fatto quasi neanche in Zelig. La tradizionale voce narrante si incarica di cominciare una storia che spieghi l'amore dell'uomo per la città simbolo del XX secolo, la città che si apre al mondo nell'oceano con il dono del simbolo della libertà. Solo che questa storia sembra non avere un seguito: Manhattan si inscrive su una sequela di libri non finiti o non letti, di messaggi artistici incompresi, di eredità non del tutto digerite da una tradizione culturale (in special modo mitteleuropea) che in fin dei conti non si digerisce.
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