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Manifesto per una psicoterapia di comunità a sostegno della partecipazione sociale: la psicoterapia individuale e quella di gruppo rispondono ancora ai bisogni di cura della società?

Creato il 14 novembre 2015 da Raffaelebarone

di Simone Bruschetta, Vincenzo Bellia, Raffaele Barone

Da Rivista del Laboratorio di Gruppoanalisi (2015)

1. Introduzione
Il titolo pone un interrogativo provocatorio, ma nello stesso tempo
esprime un’ipotesi da esplorare con onestà intellettuale e spirito
critico: l’ipotesi che la psicoterapia, almeno nelle sue forme
accademiche e professionali più diffuse e maggiormente sottoposte
alla ricerca scientifica e alla valutazione empirica (cioè il setting
individuale e quello del piccolo gruppo), non risponda più, con
l’efficacia attesa o ipotizzata per tutto il secondo Novecento, ai
bisogni di cura della società contemporanea (Ehrenberg, 2010; Kaës,
2012). Detto in altri termini, secondo questa ipotesi la psicoterapia
non costituisce più una delle risorse fondamentali per la salute
mentale delle nostre comunità di vita, ormai postmoderne e
postcapitalistiche (Bauman, 2003; Sennett, 1998). Il sottotitolo indica
poi possibili direzioni di sviluppo di questa ipotesi critica, in un’ottica
di ricerca di nuove risorse per la salute mentale di comunità, così
come definita e sviluppata, sin dall’inizio del nuovo secolo,
dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, per la prevenzione, la cura
ed il recovery della grave patologia mentale (WHO, 2001; 2014).
Per argomentare questa ipotesi non partiremo dagli studi empirici e
dalle prove sperimentali sull’efficacia della psicoterapia che la
letteratura scientifica ha prodotto fino ad oggi, ma procederemo
seguendo la traccia di alcuni pensieri critici, per riflettervi
euristicamente. Dal punto di vista epistemologico, infatti, ogni ipotesi,
prima ancora di generare una ricerca, rappresenta un punto di vista
sulla realtà, uno dei tanti possibili, in grado di rappresentarla più o
meno fedelmente, ma mai integralmente. Ogni punto di vista, a sua
volta, rivela elementi intrinseci dei contesti socio-ambientali in cui
prende forma.
L’ipotesi di cui argomentiamo, lo dichiariamo apertamente, nasce
all’interno di un contesto professionale siciliano, connotato dalla
gruppoanalisi e dalle arti terapie, il cui nucleo originario ha preso
forma nel territorio catanese, storicamente attraversato da reti sociali
interconnesse ai servizi di salute mentale più innovativi e ad
istituzioni scientifico-professionali note a livello nazionale e
internazionale per il loro peculiare interesse per la riflessione sullo
sviluppo sociale (Barone & Bellia, 2000).
2. Che cosa è psicoterapia?
Partiamo da un assunto, che assumeremo come tesi iniziale per
sviluppare l’ipotesi indicata dal titolo: tutto ciò che migliora la salute
mentale di un individuo o di un contesto relazionale, se attuato
attraverso un servizio professionale, orientato da una teoria dei
processi mentali e regolato da una contrattazione esplicita, è da
intendersi come psicoterapia (Barone, Bellia & Bruschetta, 2010).
Questo assunto, in realtà, è già una specifica ad uso tecnico di un più
ampio assunto antropologico-culturale, secondo il quale la salute
mentale si fonda sul funzionamento di una complessità di campi
relazionali e mentali, solo alcuni dei quali possono essere considerati
attivati e sostenuti da servizi professionali. La maggior parte delle
dinamiche mentali e relazionali, sulla base di questo assunto
antropologico-culturale, attengono invece a processi di scambio che
coinvolgono reti sociali:
• più intime (come quelle familiari e amicali),
• più solidali (da quelle costruite dagli stessi pazienti e dai loro
familiari a quelle che organizzano la società civile, la
partecipazione politica e lo sviluppo culturale)
• più informali (come quelle socio-economiche che tessono gli
scambi di beni tangibili e intangibili di una comunità, o che
garantiscono la salvaguardia di beni comuni).
Da questa intricata rete di relazioni sociali e dai campi mentali che
esse sottendono (Folgheraiter, 2006; Fasolo, 2009), dipendono in
gran parte le possibilità di:
• promuovere la salute mentale nelle comunità di vita e di lavoro
• prevenire nelle comunità le più gravi manifestazioni di disagio
psichico e la conseguente insorgenza di patologie mentali
• curare efficacemente la psicopatologia manifesta e soprattutto
guarirne, più o meno definitivamente.
Ai fini del nostro ragionamento, però, ci interessa tracciare nuovi
confini per quella pratica professionale nata poco più di cento anni fa
e definita ancor oggi psicoterapia, per incrociare gli obiettivi che essa
si pone con i nuovi bisogni di salute della società contemporanea.
3. Che cosa è salute mentale?
A quali soggettività e a quali campi mentali si applica il concetto di
salute mentale? La salute mentale può riferirsi a un individuo, ma
anche a un gruppo umano come la famiglia, o ad altri gruppi sociali
più o meno spontaneamente costituiti; ma anche ad agenzie sociali
più grandi, come le organizzazioni di lavoro, le associazioni, le
cooperative o le aziende. La salute mentale, infine, può appartenere
anche (e soprattutto, diremmo ai fini del nostro discorso) alla
comunità sociale nel suo complesso.
La salute mentale di una comunità sociale indica anzi proprio il livello
di benessere relazionale, di sviluppo culturale, ma anche i sentimenti
di coesione, di appartenenza e di libertà dei suoi membri;
rappresenta quindi un fattore di sostegno allo sviluppo del sentimento
identitario individuale e al superamento delle crisi esistenziali
evolutive.
Quando ci riferiamo a un ambito territoriale politicamente o
culturalmente delimitato (come una città, un quartiere o qualsiasi
altro contesto ambientale di convivenza socio-politica), il concetto di
comunità locale ci aiuta ad identificare lo spazio mentale e relazionale
in cui andare a valutare la qualità e il livello di salute mentale (Barone
& Bruschetta, 2011; Bruschetta & Barone, 2011).
In questo caso l’assunto da cui siamo partiti può essere ulteriormente
specificato come segue: tutto ciò che migliora la salute mentale di
una comunità locale, se realizzato in un contesto relazionale, attuato
attraverso un servizio professionale, orientato da una teoria dei
processi mentali e regolato da una contrattazione esplicita, è da
intendersi come psicoterapia di comunità. Questo sviluppo
dell’assunto iniziale evidenzia però un’anomalia e postula una serie di
corollari.
4. Quali servizi per la salute mentale delle comunità?
L’anomalia scaturisce dall’osservazione che possono esistere in una
comunità altri servizi professionali che ne migliorano la salute
mentale, per esempio quei servizi di matrice artistica e culturale che
si traducono nell’attività professionale delle arti terapie, o alcuni di
quei servizi attinenti al welfare che si traducono nelle attività
orientate agli interventi di sostegno ed inclusione sociale.
L’anomalia, se indagata a fondo, ci conduce a prendere
consapevolezza di altre ancora tipologie di servizio, in ambito
culturale, che migliorano la salute mentale di una comunità. Ci
riferiamo per esempio ai servizi condotti tra pari, dagli stessi utenti
che si riconoscono anche bisognosi del sostegno di professionisti della
salute mentale; sono servizi che assumono una caratteristica semiprofessionale,
detta anche partecipativa.
La conduzione tra pari, inoltre, non definisce solo i gruppi dell’area
dell’auto mutuo-aiuto, ma assume ulteriore peso metodologico
portando a riconcepire in termini di parità nella partecipazione anche
più tradizionali gruppi terapeutici, per esempio nel settore della
danzaterapia (Bellia, 2007)… L’anomalia si allarga!
Il primo corollario che deriva dal nostro assunto di partenza è il
seguente: i referenti scientifico-professionali della salute mentale di
comunità non possono che essere gli psicoterapeuti di comunità, se
accettano di integrare le loro pratiche e i loro saperi con tutti gli altri
professionisti che si occupano di salute mentale, a partire dai
professionisti delle arti terapie, dagli operatori dei servizi sociali e
culturali, e da tutti coloro che, riconoscendosi come utenti, si autoorganizzano
in maniera partecipativa in servizi di “cura tra pari”.
Questa affermazione ha per noi una portata rivoluzionaria, rispetto
alle pratiche di cura che la nostra società ha invece sviluppato quando
ha affidato ai medici psichiatri delle aziende sanitarie pubbliche la
responsabilità della tutela della salute mentale di un ambito
territoriale amministrativamente definito
Se sviluppiamo ulteriormente il nostro assunto, possiamo arrivare a
definire la comunità locale come il contesto relazionale e il campo
mentale su cui intervenire con pratiche di sviluppo sociale,
partecipazione politica e benessere relazionale attraverso le quali
garantire la qualità della salute mentale di tutti i suoi membri e delle
reti sociali che li attraversano. Tali pratiche non possono quindi che
essere considerate e progettate come interventi di psicoterapia di
comunità (Barone, Bruschetta & D’Alema, 2013; Bruschetta, Barone
& Frasca, 2014).
Il buon funzionamento delle reti sociali garantisce una sana
relazionalità negli scambi e nei legami sociali e affettivi. Gli affetti,
intesi qui come specifici legami umani, si formano infatti in contesti
relazionali multi-personali, che si strutturano a loro volta in campi
mentali gruppali. Una buona rete sociale di sostegno e partecipazione
rappresenta quindi una ulteriore garanzia allo sviluppo di campi
mentali insaturi e quindi fautori di sempre nuova gruppalità e di
legami affettivi altrettanto sani.
Il livello di salute dell’individuo e dei suoi affetti si fonda su gruppalità
che, quando “malate”, possono essere curate costruendo gruppi
artificiali e/o intervenendo sui gruppi naturali, attraverso tecniche
psicoterapeutiche e arti terapeutiche multi-personali che sostengano
la partecipazione alla cura, ovvero, in altri termini, mediante la “cura
tra pari”.
Il livello di salute di queste gruppalità dipende, per la maggior parte,
dal buon funzionamento degli scambi e dei legami lungo le reti sociali
dei contesti di appartenenza, e quindi in buona misura dagli interventi
di cura della salute mentale della comunità locale. Tra queste
gruppalità, quelle che meno beneficiano delle reti sociali sono forse
quelle familiari, in quanto costituitesi attraverso dinamiche di
discendenza più o meno saturate dalla storia passata. In questo caso
Rivista del Laborator io di Gruppoanal isi
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il livello di sofferenza individuale e familiare può non essere
facilmente intaccato dai processi terapeutici attivati dagli interventi di
psicoterapia di comunità. Un buon sostegno comunitario alle famiglie
in difficoltà, però, è il primo passo per attivare in esse un processo di
empowerment che le predisponga ad affrontare il proprio disagio e a
prendersi cura dei propri membri più sofferenti. (Bruschetta & Pezzoli,
Barone, Bruschetta & Frasca, 2014; Seikkula, 2014; Garcia
Badaracco, 2000).
5. Quali protagonisti delle (psico)terapie per la comunità?
In che senso possiamo considerare confermata l’ipotesi iniziale, o in
che modo dobbiamo riformularla? Se la psicoterapia individuale,
quella in piccolo gruppo e soprattutto quella familiare risultano in
molti casi ancora indispensabili, la psicoterapia di comunità non può
certo essere considerata l’unica forma di psicoterapia in grado di
rispondere ai bisogni di cura della popolazione, a meno che non sia
concepita sì come una forma psicoterapeutica di base che migliora la
qualità della salute mentale di una comunità definita, ma anche e
soprattutto come lo sfondo e la cornice dei diversi interventi
psicoterapeutici (individuali, di gruppo, familiari) messi in atto nei
casi di specifiche manifestazioni psicopatologiche.
Un modello particolarmente adatto ad assumere il compito socioprofessionale
della psicoterapia comunitaria ci sembra quello
psicodinamico gruppoanalitico (Foulkes, 1975; Dalal, 1998), grazie a:
• la sua fondazione epistemologica di tipo antropologico
• la sua prassi clinica sviluppatasi in setting individuali, gruppali,
familiari, istituzionali e comunitari
• la centralità che vi assume il potere terapeutico dei pari e
l’orientamento alla partecipazione sociale.
Se la psicoterapia di comunità è la forma psicoterapeutica di base che
meglio risponde ai bisogni di cura della società, ne discende un primo
corollario: la psicoterapia convenzionata con i servizi pubblici di salute
mentale non può che essere, per la sua massima parte, espressa in
forma comunitaria, nel rispetto del principio della massima efficacia
per il maggior numero di casi.
Un secondo corollario è che i processi terapeutici comunitari si
fondano sull’attivazione di spazi mentali di transito e interconnessione
tra le culture, i gruppi sociali di appartenenza e le diverse
generazioni. Sulle dinamiche transculturali e transgenerazionali si
fondano i principali fattori terapeutici comunitari, sia che i dispositivi
utilizzati prevedano l’incontro reale di persone appartenenti a culture
e generazioni diverse, sia che nella cura dei campi mentali valorizzino
il potenziale etico-politico della diversità e dell’alterità.
In siffatti dispositivi terapeutici comunitari i compagni di viaggio (o,
più tecnicamente, i “colleghi”) non saranno più soltanto
psicoterapeuti, psicologi e psichiatri, ma sempre più figure “altre”:
• professionisti delle arti terapie, tecnici della riabilitazione,
assistenti sociali, infermieri
• figure istituzionalmente meno definite, come operatori di
strada, mediatori linguistico-culturali, intermediatori sociali,
animatori di comunità, counselor, operatori domiciliari e di
quartiere, ecc.
• educatori e insegnanti di sostegno, medici di base, in generale
tutti i professionisti delle relazioni d’aiuto e dei servizi alla
persona
• rappresentanti del volontariato sociale, dell’associazionismo
culturale e della cosiddetta società civile
• “colleghi semi-professionisti”: gli utenti esperti che animano i
servizi semi-professionali tra pari.
Da questa impostazione discendono alcune domande che, per il loro
valore euristico, speriamo però rimangano aperte per molto altro
tempo ancora.
1. Quanto queste altre professioni sociali sono realmente “altre”
rispetto alla psicoterapia, perlomeno rispetto alla psicoterapia di
comunità?
2. Dove sta il confine tra pratiche terapeutiche professionali e
pratiche di partecipazione sociale?
3. Quali sono i dispositivi formativi e trans-formativi per
sviluppare e diffondere le competenze professionali necessarie
a praticare concretamente le prassi psicoterapeutiche
comunitarie?
Forse le esperienze in setting individuale e di piccolo gruppo proposte
nei training di specializzazione (in psicoterapia, arte terapia o altre
discipline) non sono più in grado di rispondere ai bisogni formativi di
base delle nostre comunità sociali, scientifiche, culturali e
professionali.
Forse, in molte occasioni, i nuovi compagni di viaggio sopra indicati
potrebbero diventare anche nostri compagni di scuola e, perché no,
potrebbero anche essere considerati nostri maestri.
Forse abbiamo ancora tutti da imparare come spendere le
competenze analitiche e relazionali nei setting cosiddetti spuri, nonstabili
o in ri-costruzione costante.
Forse la nostra capacità di influenzare lo sviluppo delle nostre
comunità di appartenenza è direttamente proporzionale alla nostra
capacità di presidiare, con le nostre prassi terapeutiche, quegli spazi
sociali e mentali di incontro transculturale e transgenerazionale che i
membri dei gruppi sociali svantaggiati e a rischio di emarginazione
attraversano quotidianamente, a costo di esperienze spesso
traumatiche e di grande disagio esistenziale.
Se gli psicoterapeuti, i professionisti delle arti terapie e tutti coloro
che operano per l’evoluzione dei campi mentali dai quali dipende la
salute mentale vogliono svolgere un ruolo strategico e rappresentare
un riferimento culturale e professionale primario per il governo e lo
sviluppo delle comunità sociali cui appartengono, non possono che
porsi come interlocutori tecnico-politici privilegiati nel settore della
salute mentale di comunità e nel sostegno degli utenti nelle pratiche
di partecipazione ai servizi di “cura tra pari” (Mattioli, Dragoni &
Bellia, 2013; Fioritti, D’Alema, Barone & Bruschetta, 2014).
La psicoterapia di comunità potrebbe quindi essere intesa anche
come una nuova prassi di “azione politica dal basso”, oltre che come
un approccio all’esercizio della pratica professionale di ciascun
terapeuta e come una pratica della partecipazione a servizi di “cura
tra pari”, particolarmente efficaci a dare risposta ai bisogni di salute
mentale della nostra società.
Se accettiamo l’ipotesi costruzionistica della fondazione della psiche
sulle dinamiche socio-politiche che animano i contesti antropologici di
appartenenza degli individui, allora la psicoterapia di comunità (ma
forse anche ogni altra psicoterapia) ha come mandato sociale la
costruzione di comunità che siano terapeutiche: non istituzioni
allocative, né tanto meno semplicemente residenziali, bensì comunità
locali e contesti di vita, dove siano possibili quei transiti e quelle
trasformazioni evolutive fondamentali per la salute mentale di ogni
individuo che ne faccia parte.
Le comunità, però, non si costruiscono mai artificialmente
dall’esterno; questa consapevolezza è metodologicamente
fondamentale anche per gli “utenti esperti” che partecipano ai servizi
di “cura tra pari”. La comunità può essere costruita solo da chi ne fa
parte! I servizi di salute mentale operano nella direzione della cura e
del benessere della comunità sociale cui sono rivolti, sono se
costruiscono dimensioni comunitarie vincolate dai fondamenti della
comunità terapeutica, primi fra tutti quelli della Democrazia, della
Solidarietà e del valore della Diversità (Haigh, 2013; Barone &
Bruschetta, 2014).
Le comunità terapeutiche si co-costruiscono, accettando di prendervi
parte assieme a tutti i loro membri. Partecipare alla co-costruzione di
comunità terapeutiche locali vuol dire accettare di trasformare la
propria cultura (anche quella tecnica sulla sofferenza mentale) e la
propria esperienza (anche quella empirica sulla salute mentale)
condividendole con le culture e le esperienze di cui sono portatori
tutti i membri della comunità, soprattutto i più sofferenti: culture ed
esperienze sulle peculiari modalità locali di ammalarsi, di curarsi e di
guarire umanamente.
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