Maraviglioso Boccaccio, senza dubbio. Questo ormai è un dato di fatto. La visionarietà, la ricchezza e la modernità delle novelle del Decamerone sono qualcosa di senza tempo, eterno, sempre attuale. La perfezione narrativa del poeta e scrittore di Certaldo è davvero qualcosa di maraviglioso oggi come e forse più di ieri. Un po’ meno maravigliosi i fratelli Taviani, il cui Decamerone appare un’opera disomogenea, discontinua, riuscita solo a tratti.
Ecco quindi già un paio di cose che fiaccano Maraviglioso Boccaccio.
Ma al film dei Taviani manca anche un inizio motivato (l’appestato che si butta dal Campanile di Giotto non ha seguito nel film), oltre ad una frase di chiusura che inquadri il “loro” Boccaccio e il “loro” Decamerone. Perché di Decameroni se ne possono fare a dozzine, quindi ciascuno deve aver la propria ragion d’essere. Ecco, a Maraviglioso Boccaccio questa ragion d’essere manca, sfugge, si nasconde.
Anche se non siamo qui a fare confronti scomodi e fuori luogo, Pasolini ci mostrava il “suo” Decameron, sudicio, caotico, boccaccesco nel senso comune del termine, pruriginoso. C’è il corpo, la carne, insomma c’è Pasolini in quel Decameron. Di certo più soleggiato, colorato, pittorico e meno sporco del Decameron napoletano di Pasolini, quello dei Taviani è un mondo più casto, atemporale, in cui non si riesce a scorgere la vera cifra personale e autoriale dei due fratelli samminiatesi. Inoltre, non c’è neppure la cura filologica del Giovane Favoloso di Martone, come traspare subito dal volo, datato nel 1348, da un Campanile di Giotto ultimato circa dieci anni dopo, nel 1359.
Maraviglioso Boccaccio è dunque un film privo di guizzi e di vero mordente artistico, al di là di qualche paesaggio dal gusto pittorico davvero pregevole. Ma sono lampi sparsi qua e là, come il finale che, pur tranchant e repentino, richiama in modo trasversale un nuovo addio e un nuovo inizio ai tempi di un’altra peste, quella dei Promessi Sposi, in cui, al capitolo 37, Renzo lascia Milano sotto una pioggia rigeneratrice e liberatoria. Ne riporto il passo di maravigliosa bellezza:
Appena infatti ebbe Renzo passata la soglia del lazzeretto e preso a diritta, per ritrovar la viottola di dov’era sboccato la mattina sotto le mura, principiò come una grandine di goccioloni radi e impetuosi, che, battendo e risaltando sulla strada bianca e arida, sollevavano un minuto polverìo; in un momento, diventaron fitti; e prima che arrivasse alla viottola, la veniva giù a secchie. Renzo, in vece d’inquietarsene, ci sguazzava dentro, se la godeva in quella rinfrescata, in quel susurrìo, in quel brulichìo dell’erbe e delle foglie, tremolanti, gocciolanti, rinverdite, lustre; metteva certi respironi larghi e pieni; e in quel risolvimento della natura sentiva come più liberamente e più vivamente quello che s’era fatto nel suo destino.
Ma quanto più schietto e intero sarebbe stato questo sentimento, se Renzo avesse potuto indovinare quel che si vide pochi giorni dopo: che quell’acqua portava via il contagio; che, dopo quella, il lazzeretto, se non era per restituire ai viventi tutti i viventi che conteneva, almeno non n’avrebbe più ingoiati altri; che, tra una settimana, si vedrebbero riaperti usci e botteghe, non si parlerebbe quasi più che di quarantina; e della peste non rimarrebbe se non qualche resticciolo qua e là; quello strascico che un tal flagello lasciava sempre dietro a sé per qualche tempo.
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