Marcel Vulpis – Sporteconomy.it: “Il calcio è una sub-cultura, è lo specchio del paese”

Creato il 26 ottobre 2013 da Stivalepensante @StivalePensante

Un’intervista a 360°, quella che abbiamo fatto al direttore di SportEconomy.it, Marcel Vulpis: agenzia nata per passione, è diventata in pochi anni un punto riferimento per tutto il mondo economico-sportivo.

Marcel Vulpis. 44 anni, laureato in Scienze Politiche con una tesi in Relazioni Industriali alla Luiss-Guido Carli. E’ giornalista ed economista A.E.I. con specializzazione in politica e sports-marketing. Editore e fondatore dell’agenzia stampa Sporteconomy, che al suo interno comprende anche l’Istituto di ricerca Sporteconomy e la web-tv Sporteconomy.tv. Opinionista su temi di sport-business per RaiNews24, SkySport24, SkyTg24 e BloombergTv. Nell’ultimo biennio ha scritto due libri sul marketing sportivo (“Benchmarketing-dieci idee creative di sport-business”) e i social media nel mondo del calcio (“New Media & Digital Football”). Ama il calcio, ma solo dal punto di vista economico, perché è uno sportivo per natura.

Lei è il direttore di SportEconomy.it, una tra le prime agenzie leader in Europa nel business del marketing sportivo. Da dove è nata questa idea?

E’ nata nel 2003 dall’unione di un gruppo ristretto di giornalisti economici romani, con una grande passione per lo sport e il business. Nell’autunno 2004 abbiamo aperto operativamente e l’anno successivo ci siamo trasformati in agenzia stampa nazionale. Oggi siamo “market leader” nell’informazione economico-sportiva, fornendo contenuti, schede e approfondimenti ai principali media (sia a livello cartaceo che tv). Più in generale in ambito continentale siamo tra le prime 5 agenzie per qualità e quantità dei contenuti. Ci occupiamo di tutto ciò che è economia dello sport, dal calcio agli sport minori, dal mercato “domestico” a quelli internazionali. Sette giorni su sette, 24 ore su 24, senza mai stop.

Quali sono gli sport che seguite di più? 

Calcio e motori, ma anche aggiungo tutti i grandi eventi sportivi (Olimpiadi estive e invernali, mondiali di rugby, America’s cup di vela, Mondiali di atletica leggera, Europei di calcio, ecc.)

Quale sport in Italia è più sano prendendo in considerazione il livello economico, il rispetto e il coinvolgimento delle persone? 

Tutto lo sport italiano in generale è in forte contrazione, causa una crisi internazionale perdurante. Tutti gli eventi principali, come i principali club di calcio (per parlare dello sport nazionale per eccellenza) stanno soffrendo ormai da più di 4-5 anni. Se questa situazione dovesse continuare per un altro biennio, prevedo un default terrificante per l’intero comparto. Pensiamo solo ai 410 milioni di euro che arrivano al CONI dal governo. E se il nostro Stato non riuscisse più a garantirli, cosa succederebbe, esisterebbe, per esempio, un piano “B” per salvare la preparazione olimpica? Si danno per scontate troppe cose, che invece non lo sono. Non voglio fare la “cassandra”, ma siamo vicini al default, solo se consideriamo il debito pubblico del Paese (con oltre 80 miliardi di euro solo di interessi da pagare).

Come vengono gestiti i fondi pubblici nei confronti del mondo sportivo? In che modo?

Quello che non è più sostenibile è questo forte senso di assistenzialismo. Non è più proponibile considerati i tempi. Lo sport italiano deve iniziare a comprendere che non può aspettare sempre l’aiutino dal “pubblico”, perché anche il pubblico, a sua volta, non sa più come tappare le falle in diversi settori, anche più strategici dello sport per lo sviluppo economico del Paese. Serve una maggiore professionalità delle risorse per andare ad intercettare sul mercato “privato” le risorse economiche che il pubblico non può più garantire a pioggia come negli anni passati.

La home page di Sporteconomy.it (sporteconomy.it)

Il calcio, nello sport in Italia, è quello più seguito. Per quale ragione la politica non riesce ad intervenire per regolamentare al meglio l’impatto sociologico ed economico che ne assume?

Perché la classe politica attuale non è all’altezza delle moderne esigenze del Paese. E’ una classe politica incapace di dare risposte concrete, perché troppo attenta e concentrata ancora sul manuale “Cencelli”, nella ripartizione delle poltrone. Con questa classe politica è impossibile qualsivoglia minimo barlume di modernizzazione e sviluppo del Paese.

La violenza negli stadi, i cori delle curve e le famiglie sempre meno lontane dal tifo. Da cosa derivano tutti questi fattori?

Molto semplicemente, ma nessuno ha il coraggio di dirlo, il calcio è una “sub-cultura”, non è più un fattore socio-aggregativo come era un tempo. In un Paese diviso su qualsiasi tema ed aspetto strategico di sviluppo, anche il pallone è un ingrediente per sfogare le proprie frustrazioni e sperimentare nuove forme di violenza. Il calcio è lo specchio del Paese. Un Paese disunito, ferito, povero e fortemente incazzato. C’è un disagio sociale che si taglia con il coltello e le curve sono una delle estremizzazioni (negative) di questo malessere diffuso. Come uscirne? Leggi dure e severe come quelle introdotte molti anni fa in Inghilterra dal governo Thatcher. Ma non vedo un governo forte (anche se di “larghe intese”) capace di prendere una decisione dura come questa che sto lanciando provocatoriamente: non riusciamo a ridurre le tasse, figuriamoci se si riesce a debellare la violenza negli stadi di calcio italiani.

Perché all’estero, invece, la situazione è diversa? Un esempio sono gli stadi tedeschi che fanno sempre registrare maggiori spettatori.

Perché negli altri Paesi a partire dalla Germania per proseguire con l’Inghilterra, il calcio non è una valvola di sfogo sociale, un ammortizzatore con cui “drogare” generazioni di giovani (magari disoccupati o alla ricerca di un lavoro precario). E’ piuttosto una forma di intrattenimento moderno, con cui divertirsi in un ambiente piacevole (gli stadi – quasi tutti dotati di comfort) e all’interno di community sportive (quelle dei tifosi) che sanno cosa possono rischiare (parlo del carcere) in caso di scontri o violenze. E’ chiaro che in questi Paesi civili come la Germania portare i figli allo stadio è un piacere, non è un dramma. Come pensiamo di attrarre nuovi tifosi se non siamo capaci di riportare le famiglie negli impianti sportivi sedi delle gare?

Questa incapacità politica, che causa minor entusiasmo nel riempire gli stadi italiani, sembra contrapporsi alle attività imprenditoriali estere. Gli investimenti orientali nel calcio occidentale, per esempio, nel calcio britannico, spagnolo e francese sono un fattore positivo o negativo? In che modo?

Attrarre investimenti stranieri sul mercato “domestico” non è di per sè un errore, anzi. Siamo in un mercato globale e/o globalizzato e dobbiamo essere capaci di attirare l’attenzione di nuovi investitori a partire da quei mercati, come quelli asiatici, che ancora non stanno scontando una crisi economica dei mercati come per esempio in Italia o in Europa. Il problema, mi permetto di dire, non è tanto il colore di questo denaro, quanto avere la certezza della tracciabilità di tutte le operazioni in arrivo. Sempre più vedo in Europa l’ingresso di capitali importanti, che transitano nel calcio, senza che nessuno si chieda come sono stati creati questi ingenti patrimoni. Solo questo mi permetto di dire. Tutti per esempio applaudono Roman Abramovich (patron del Chelsea) per gli investimenti effettuati sul calcio inglese, ma nessuno ha mai capito come ha costruito in così poco tempo le sue fortune economiche. Anche perché, particolare non trascurabile, il signor Abramovich non rilascia interviste alla stampa inglese.

Un altro aspetto economico del calcio riguarda i diritti televisivi, che creano sempre tanto clamore.  Rispetto agli altri paesi, l’Italia è molto meno eguale nell’assegnazione dei ricavi. Per quale ragione? Come incide nelle casse delle piccole squadre?

Il clamore di queste ultime settimane nasce da una polemica sterile di alcuni club sulla quantificazione economica di questa “torta”, ampiamente valorizzata fino ad oggi dall’advisor della Lega – il gruppo Infront. Detto questo, la litigiosità di questo Paese è forse una nostra “eccellenza alla rovescia”, mi si permetta la battuta, i club da sempre non riescono a far crescere gli altri asset commerciali, ecco perché i diritti audiovisivi continuano a pesare in questo modo. C’è da dire che con questi stadi da Terzo Mondo è difficile poter provare a realizzare nuovi miracoli economici, ma finché i presidenti italiani non capiranno che magari devono rinunciare al cartellino di un calciatore, per investire nella copertura wi-fi dello stadio non ne usciremo mai. E’ un serpente che si morde la coda. Ad oggi nelle casse dei piccoli club i diritti audiovisivi sono oltre il 60% – se non vi fossero – gli stessi sarebbero già “falliti”. E’ brutto dirlo ma è così, certamente non è con il ticketing o con 2000 magliette vendute a stagione per caso che rimangono “vivi”.

E allora, cosa dovrebbe fare la politica per favorire il superamento della crisi che imperversa nel mondo del calcio?

Ragionare con una logica di servizio e di supporto al sistema calcio in generale. Purtroppo questo non è possibile, almeno al momento, perché la caratteristica generale di questa fase della politica italiana è quella della “confusione mentale” in tutti i settori, incluso lo sport. Siamo al terzo tentativo di approvazione per esempio della legge sugli stadi (questa volta è il turno di Nardella – PD renziano), ma non ho la certezza che vi riesca, perché le lobbies dell’edilizia non vedranno di buon occhio la “ratio” anti-speculativa (come è giusto che sia) di questo nuovo provvedimento. Troppi interessi da far coincidere, con lo sport o il calcio, che, purtroppo fa da semplice “cornice”. Manca una politica sportiva da tempo. Questo perché tutti corrono per questa o quella poltrona, ma un secondo dopo esservi seduti vengono stritolati dal consociativismo diffuso di questo Paese. La burocrazia, le lobbies, il senso di corporativismo stanno uccidendo l’Italia. Non c’è più modernizzazione e innovazione in questo Paese e il calcio è lo specchio di questo schifo.

Il Senato della Repubblica (formiche.net)

Nelle scorse elezioni si è speso come candidato indipendente per Scelta Civica di Mario Monti, non riuscendo ad essere eletto. Come mai questa scelta di candidarsi?

Non sono stato eletto perché da indipendente sono stato inserito all’ultimo posto al Senato nel Lazio. Purtroppo c’è ancora lo schifo del “Porcellum” e non è la qualità delle persone (ove sia presente) a determinare l’inserimento numerico nelle liste elettorali, ma solo le scelte cooperativistiche delle segreterie dei diversi partiti. Ho scelto lo stesso di candidarmi, perché è stato l’inizio di un percorso, ancora in atto, di impegno nella società italiana, che, nel mio piccolo cerco di cambiare. Dovremmo tutti impegnarci in politica, fare politica, non perché dobbiamo per forza sedere in Parlamento, ma perché rimanere fuori dalla politica o non occuparsene significa lasciare praterie aperte ai “professionisti della politica”, che, non hanno cuore questo Paese. C’è un Paese da cambiare, a partire dall’approccio culturale di molti giovani, che si lamentano di non trovare lavoro, ma poi non vanno neppure a votare. Voglio essere chiaro su questo punto: questa classe politica sarebbe capace di andare in Parlamento anche con il voto del padre e della madre. Se non mettiamo una barriera a queste persone contrastandoli politicamente ce li troveremo anche nel 2050 in Parlamento. E’ tempo di rinnovare l’intera classe politica, ma per farlo bisogna tutti impegnarsi a titolo personale.

Cosa le ha portato questa esperienza?

Ancora più il desiderio di continuare e di non mollare neppure di un centimetro. Nel 2014 lancerò un movimento politico nazionale che sappia parlare al cuore degli italiani in modo moderno e innovativo, nel rispetto della nostra storia e tradizione.

Cosa pensa del clima politico italiano?

In una parola: vomito diffuso. Ma la colpa non è dei politici presenti oggi in Parlamento, ma di coloro che li hanno eletti. La colpa è solo degli italiani: di quelli che li votano, così come di quelli che credono di essere più snob o intelligenti non andando a votare. Così facendo permettono a queste persone di entrare nelle istituzioni con un pacchetto anche minimo di “truppe cammellate” ben organizzate. Bisogna cambiare la cultura di questo Paese dalle radici. Il 17 e 18 novembre ci saranno le elezioni in Basilicata, dove da decenni vince la Sinistra. Il problema vero è che non c’è neppure un centro-destra “vero” e che il 70% del lavoro lucano è strettamente collegato al sistema politico regionale. Di fronte a questi dati inconfutabili (basta parlare con gli addetti ai lavori) capite bene che cambiare la testa dei lucani non è semplice. Peraltro le liste di molti movimenti presentano indagati, in barba ai più generici principi “etici” in ambito elettorale/politico. Su questo invito i lettori dell’articolo a riflettere.

Delle dimissioni di Monti invece?

Monti non è un politico, gli hanno fatto credere di esserlo. L’hanno portato in un pantano, quello della politica italiana, dove è rimasto stritolato. Se avesse terminato il suo impegno nel governo tecnico, senza candidarsi a leader di un partito, oggi il prof. Mario Monti sarebbe seduto al Colle al posto di Giorgio Napolitano. E’ chiaramente senatore a vita, ma non diventerà mai presidente della Repubblica. Anche se la “sua” speranza un giorno di esserlo è l’ultima a morire.