Marco Bassetti: "Guarderemo la tv sulle pagine di Facebook e YouTube" (Corriere della Sera)

Creato il 27 gennaio 2014 da Nicoladki @NicolaRaiano
Marco Bassetti, 56 anni, è oggi il ceo di Banijay, gruppo partecipato dall’Ifil della famiglia Agnelli, dal gruppo Arnault e da De Agostini. Ha iniziato a lavorare in televisione all’inizio degli anni Ottanta per poi arrivare in Mediaset. Sposato con Stefania Craxi, ha fondato Aran ed Endemol Italia, divenendo poi ceo e presidente del gruppo Endemol, il produttore del Grande Fratello. Nel 2012 ha lasciato Endemol e fondato Ambra multimedia.
Digitale, satellitare, streaming. Bassetti, che fine sta facendo la televisione?«Nessuna fine sta solo cambiando, lo storytelling e il modo in cui verrà proposto rimarrà uguale. Oggi l’interazione media avviene all’87% on screen, ci sono schermi dappertutto. In futuro deciderò io quali contenuti audiovisuali selezionare, come e quando vederli. La televisione sarà più verticale e più segmentata».
È finito un mondo?«No, anzi il mutamento sta offrendo grandi opportunità. Il cambiamento è evidente e travolge anche la pubblicità. Le motivazioni che erano alla base dell’acquisto e della vendita di spazi pubblicitari attraverso concessionarie e centri media è destinato a cambiare».
Tutta colpa di Internet?«Gli investimenti pubblicitari sul web crescono a doppia cifra, poi Internet disintermedia, accorcia la catena. Come avviene per viaggi, perché non dovrebbe avvenire per l’acquisto di pubblicità? Però l’avvento della tecnologia è jobless recovery. E i giganti di Internet hanno nei confronti dell’Europa dei comportamenti di quasi elusione fiscale che negli Usa avrebbero ben altro trattamento...».
Come avverrà il cambiamento?«Sta già avvenendo, pensiamo alla posizione dominante di You Tube dove passano oltre la metà dei video visti sul web e dove vengono trasmessi oltre l’85% dei cosiddetti Mcn o canali user generetor content. Oggi noi a Banijay investiamo su You Tube e abbiamo canali in quasi tutti i paesi dove siamo presenti. Ma, soprattutto, con budget molto importanti su You Tube stanno investendo Dreamworks, Fox e Warner ha appena investito 40 milioni in Makerstudio che cresce del 15% al mese. Su Facebook ci sono 1,2 miliardi di persone attive ogni mese che tra poco fruiranno direttamente di contenuti. La competizione sarà li, non tra Rai e Mediaset».
Ma negli Stati Uniti la realtà è ben diversa da quella italiana.«Vero. La pubblicità negli Usa cresce del 5%. In Europa è flat. In Italia negli ultimi anni sono usciti dal mercato della pubblicità 2 miliardi di euro, che non torneranno più e se torneranno non andranno dov’erano. In Spagna una buona riforma del lavoro ha portato a una ripresa degli investimenti pubblicitari e un sentiment al consumo che sta virando al positivo. In Italia di questo non c’è traccia».
Non è il primo problema…«Certo, ma sui costi, la rigidità del mercato del lavoro e la burocrazia si può agire subito. Tornando a noi, i broadcaster in Italia avevano investito più in studi televisivi che sull’innovazione del prodotto e ora ridurre i costi fissi non è facile. Quindi si taglia sul prodotto, mentre all’estero hanno toccato poco o nulla gli investimenti sul prodotto. Un errore strategico».
Con quali effetti?«La classifica dei primi 100 Mcn (Multi Channel Network) del mondo, dominata da canali americani, include canali di tutte le nazioni europee, ma non c’è neppure un italiano».
Dove finiranno i soldi delle pubblicità?«Resteranno attaccati al valore intrinseco dato dal brand e dal contenuto. Le produzioni televisive saranno sempre più orientate tra contenuti premium e commodity. Da una parte i grandi brand, penso a XFactor, Grande Fratello, Amici. Produzioni che sanno creare una coda lunga. Dall’altra contenuti che saranno una specie di commodity».
Cosa intende con «coda lunga»?«La brand awareness, la capacità di un prodotto di essere riconosciuto, di affiliare l’utente su più piattaforme in modi diversi. I prodotti vengono venduti anche come un’esperienza e hanno bisogno di comunicare con prodotti audiovisuali con una forte storytelling, con una precisa segmentazione nel profilo degli ascolti. Solo così il cliente pubblicitario sarà in grado di attaccarsi alla coda lunga del contenuto per poter dialogare con il consumatore. La tv generalista non riesce a controllare tutta la catena del valore di un prodotto con una forte coda lunga».
Chi sarà il vincitore di questa nuova battaglia per la pubblicità?«Chi sarà capace di generare contenuti innovativi e multipiattaforma. Negli Usa il confronto vero sarà tra i grandi studios, come Disney e Warner e i giganti di Internet come Facebook, Amazon, Google e Netflix, che stanno cominciando a produrre e distribuire contenuti direttamente ai propri affiliati. Ho visto delle partite di basket sul sito de La Gazzetta dello Sport, fanno quasi gli stessi numeri di quelle trasmesse in televisione: un dato incoraggiante anche per gli editori in tema di diversificazione. I problemi casomai saranno altri».
Quali?«Se oggi la Lega calcio vuole fare la sua pay tv il problema sarà la distribuzione e la monetizzazione».
Siamo al de profundis per la tv?«No. Vedremo sempre il Superbowl, Sanremo e dei grandi reality con amici e parenti e questi eventi faranno sempre grandi ascolti e ricavi pubblicitari».
E Mediaset?«Sta facendo bene, ha mantenuto il 60% del mercato pubblicitario tv. Il problema non è a casa loro ma nella depressione dei consumi che ha causato un’inimmaginabile riduzione degli investimenti pubblicitari».
La Rai?«È ricca di persone di grande valore. Mi auguro che i servizi pubblici riducano il più possibile i ricavi da pubblicità e che facciano programmi non confondibili con quelli fatti dalle reti commerciali, altrimenti i nostri nipoti rideranno del fatto che lo Stato ha privatizzato infrastrutture vitali per il Paese come quelle elettriche, energetiche e viarie e rimane a competere per la raccolta pubblicitaria».
Nostalgia di Endemol?«È stata un’esperienza importante ristrutturare un’azienda con 2,3 miliardi di debito tornando a crescere negli anni della crisi. Mi è molto dispiaciuto quando Mediaset fu costretta a uscire ma ne comprendo le ragioni. Peccato, perché guardando dove stanno investendo gli altri broadcaster europei, come Itv e Rtl, aveva visto giusto e prima».
Intervista di Stefano Righiper "Corriere della Sera"

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