Marco Calamari, La scomparsa della rete

Creato il 01 dicembre 2011 da Btfp @btfp1

Chi era in rete prima che fosse invasa dalle moltitudini – scrive Marco Calamari su “Punto Informatico” – temeva principalmente la sua occupazione “militare” da parte degli stati,  tramite una censura e un controllo capillare. Non è andata esattamente così.

L’”economia del dono“, per la sua eccellenza tecnica, ha retto alla pressione delle masse e del commercio elettronico. Poi, però,

l’apparizione di entità della Rete di dimensioni tali da renderle quasi onnipotenti, come Google, Twitter e Facebook, o di ibridi Mondo-Rete come Apple ed Amazon, ha segnato un altro punto di svolta, in questo caso totalmente negativo. Una frazione maggioritaria della popolazione della Rete, che rappresenta ormai una frazione consistente della popolazione mondiale, ha iniziato a riversare sé stessa nella Rete, ma ha purtroppo scelto la strada sbagliata. Invece di diffondere in Rete il meglio di sé stessi, cose accuratamente realizzate e curate, possibilmente intelligenti o geniali, e magari fare questo con una certa dose di umiltà, vi ha riversato la propria vita e le proprie relazioni, permettendo ai pesi massimi della Rete di esercitare silenziosamente il loro potere per accumulare ricchezze e istituire un tecnocontrollo pervasivo.

Se la connettività “sparisce” negli oggetti e diventa un orizzonte invisibile, anziché uno spazio di partecipazione che dipende dalle nostre competenze e dalle nostre scelte, anche i cittadini della rete tendono a scomparire a favore di “una vastissima maggioranza di plebei sazi di quotidiano e privi di domande ed aspirazioni, unicamente concentrati sulla promozione del proprio sé come brand personale.” Al di fuori della plebe rimangono due minoranze: “quella dei potenti”, di “coloro che sanno, decidono cosa fanno gli oggetti, li progettano, e li danno da realizzare ad una parte della plebe (oggi in oriente, ma domani chissà) che in condizioni di sfruttamento produce cose che non comprende e che probabilmente non può permettersi”, e “quella dei ribelli, dell’underground digitale” – “ribelli certo, geniali forse, ma ghettizzati e autoghettizzati.”

Mi sono trovata a usare una metafora simile – la degradazione dei ricercatori da cittadini della repubblica della scienza, a proletariato, a plebe – argomentando a favore di un principio elementare come quello della pubblicazione ad accesso aperto: se la ricerca si fonda sulla libertà dell’uso pubblico della ragione, non ha senso imporle artificialmente una discussione ad accesso riservato, dietro barriere economiche ormai tecnologicamente obsolete, a esclusivo vantaggio degli oligopoli dell’editoria scientifica. Eppure, nonostante l’impegno delle istituzioni, buona parte dei ricercatori continua a lavorare gratis per i latifondisti della conoscenza e a misurare se stessi su parametri di cui non hanno controllo – dagli indici bibliometrici a qualche altra più impalpabile rete di rapporti personali, proprio come le twitstar si misurano sul Klout. Come mai gli studiosi – lo notava Robert Darnton qualche giorno fa – non si rendono conto del danno che arrecano alla repubblica delle lettere?

La rete ha fatto uscire l’etica hacker dall’Accademia, ha offerto virtù e conoscenza a chi le cercava, ma non ci ha liberato dall‘idiozia di non avere altro orizzonte al di là del proprio naso e del proprio marchio personale – da una libertà dei moderni interamente chiusa nello spazio angusto dell’individualità. Ma perché uno strumento che era stato pensato per resistere all’apocalisse – per sopravvivere, senza un’autorità centrale, alla fine di ogni sistema di controllo – si può così facilmente usare per chiudere l’orizzonte del mondo?

La libertà dei moderni, che ci ha abituato a pensare allo stato come unico nemico, ci ha indotto ad affinare gli strumenti per proteggere i privati dallo stato. Quanto al problema della protezione dei privati dai privati, la nostra esperienza storica lo associa a un mondo prepolitico, e  lo vede risolto nell’istituzione dello stato. Ora, però, ci stiamo muovendo in un ambiente post-politico, in cui il potere dei privati sui privati e sugli stati riesce a essere tanto pervasivo quanto implicito, e in cui i più ancora non si rendono conto che le leggi del codice e dell’architettura sono tanto importanti quanto quelle del diritto.

Di proletarizzazione dei ricercatori aveva parlato Max Weber, nel secondo decennio del secolo scorso: il professore, inserito come dipendente in un sistema burocratico, è privato della proprietà del suo strumento di lavoro – la biblioteca – proprio come gli operai sono separati dai mezzi di produzione. Se vediamo la rete come una macchina per la conoscenza, soltanto un passo piccolissimo separa il ricercatore proletarizzato, al servizio di un sistema il cui senso è stabilito da una struttura aliena, dal plebeo inconsapevole che regala se stesso a Facebook perché altri ne traggano profitto.

Il testo in cui Weber menzionò questo tema, La scienza come professione, è più noto per la sua “difesa - spiegava Norberto Bobbio – della scienza disinteressata [che] va di pari passo con una concezione fondamentalmente irrazionalistica dell’universo etico“, per la quale lo scienziato deve custodire “l’unica e limitata cittadella della ragione dagli assalti della non-ragione che si esprime nei giudizi di valore”:

non saranno mai ricordate abbastanza le accorate, severe, e  quanto preveggenti!, parole che Weber pronunciò alla fine del 1918, al momento della sconfitta della Germania, nella conferenza alla Libera lega studentesca, sulla scienza come professione e come vocazione (Wissenschaft als Beruf), quando disse che nella scienza ha una sua personalità e una sua dignità soltanto colui che ‟serve puramente il proprio oggetto”, esaltò ‟l’intima dedizione al proprio compito”, e domandandosi perché il professore non debba dare consigli pratici intorno al modo di agire nella società, rispose: ‟Perché la cattedra non è per i profeti e per i demagoghi”

Che, però, il senso del sapere sia solo interno, a uso dei professori, entro un universo relativistico che ha rinunciato all’intellettualismo etico e all’orizzonte di una verità possibile,  non induce, all’esterno, a smettere di prendere decisioni, e di farlo secondo valori.  Difendere la cittadella della scienza in questi termini significa lasciare ad altri – al tecnocontrollo burocratico o capitalistico – la scelta di che cosa sia meritevole essere studiato. Togliere dalla cattedra i profeti e i demagoghi, per sostituirli con i proletari e i plebei, sulla cattedra e altrove, finché – con le parole di Weber -  “non sia stato consumato l’ultimo quintale di carbon fossile“, cioè fino al crollo del sistema e alla sua apocalisse.

Siamo di fronte a una questione non soltanto tecnica, ma culturale. Per smettere di essere idioti dovremmo imparare a sentirci a un tempo ingegneri e filosofi, e scienziati, profeti e demagoghi – dovremmo imparare a riflettere sul senso non specialistico di quanto facciamo e sul valore dell’uso pubblico della ragione e dei suoi strumenti. Soltanto vent’anni fa, prima della rete, non mi sarebbe venuto in mente di leggere un articolo scritto da un ingegnere su una rivista di informatica, né avrei pensato di spendere del tempo a segnalarlo e a commentarlo per dare a Cassandra una  possibilità in più.  


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