Marco Ceriani - Gianmorte violinista

Da Ellisse

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**** Ghérasim Luca, La fine del mondo, book-trailer di 19 pag, con estratti, QUI


Marco Ceriani - Gianmorte violinista - Ed. Stampa 2009, La collana, 2014

Uomo avvisato mezzo salvato, si diceva da ragazzi, con la mano tesa minacciosamente in avanti. In altre parole: non dire che non ti avevo avvertito, se persisti sono cazzi tuoi.

La situazione è più o meno questa, quando si prende in mano un libro di Marco Ceriani, azione che non è mai un caso, un piluccare da libreria, ma un atto di volontà (e forse anche di rappresentazione, vai a sapere). Ma l'avvertimento è necessario, tant'è che la nota d'apertura di M.C. (che, tiro ad indovinare, è lo stesso Ceriani) ci parla - tra ironia e consapevolezza delle proprie capacità - di "oggetti-testo nati dalla concrezione di più elementi, e che danno in questo modo alla sua pagina una serie apertissima di sfaccettature, chiamando il lettore a una perlustrazione accanita, e, in effetti, ardua quanto molto speciale e in ogni caso ben remunerativa" (corsivo mio).

All'altro capo del libro c'è il saggio di Rodolfo Zucco, indispensabile quanto raramente lo è stata una postfazione, che all'inizio ci rende conto brevemente del fallimento, in un suo primo approccio a Ceriani, di ridurre questa poesia ai più miti consigli di una parafrasi, perchè sostanzialmente impossibile e in definitiva inutile, con conseguente insorgere di un problema (forse falso, forse inesistente) di oscurità (una questione, quella di oscurità antiparafrastica che, aggiungo incidentalmente, non riguarda certamente solo Ceriani, penso ad es. a Augusto Blotto. v.QUI, che però lavora su di un piano più strettamente linguistico). Poi, attraversi colti rimandi a vari autori (Viviani, Barbieri, Geninasca) Zucco giunge quanto meno alla convinzione (o alle ipotesi di lavoro) che la scrittura di Ceriani costituisca una sfida di diverso tipo. Per prima cosa, una assunzione di responsabilità da parte del lettore nel riconoscere: a) uno statuto alla poesia "incomprensibile", dato che (la faccio breve) oggetto della poesia è proprio ciò che non può essere rappresentato, l' irrappresentabile (Viviani, e aggiungo che mi pare che si intenda qualcosa che va oltre il potere connotativo e polisemico da sempre attribuito alla poesia); b) una necessità di andare oltre (ammesso che ci sia da parte del lettore - e lì si torna - una volontà), passando da una una prensione molare (Geninasca, c'est à dire una ricezione del testo basata su un codice comune, condiviso, di sapere diffuso, in varia misura "sociale") a quella semantica, ovvero che travalica la comunicazione diretta, utilitaristica e informativa, per puntare ad un significato "esteso", virtuale, potremmo dire surmetaforico, senza alternative di senso semplicistiche (e quindi parafrasabili), un po' come avviene con la musica, dove vige un sistema di attese, una aspettativa del (probabile) suono successivo, che può essere soddisfatta o meno (o "a inganno", aggiungerei). Paradossalmente, dice Zucco citando Daniele Barbieri, è proprio sgombrando in maniera irrevocabile il campo dall'equivoco che con i dovuti mezzi e il dovuto sforzo poi alla fine questa "difficoltà" sia superabile, che questa poesia "semplifica le cose". Aggiunge Zucco: "incoraggio il lettore ad abbandonarsi a questa "semplicità" (...) assecondando il sistema di attese - soddisfatte o irrisolte - che fondano questo specifico sistema stilistico. Ciò richiedera tempo e dedizione...". Zucco dice altre cose interessanti, ma resta consapevole di dover riportare sempre "risultati parziali" in questo accostamento a Ceriani, forieri di ulteriori domande.

Bene, raramente un libro di poesie ha avuto così tanti warnings, così tanti cartelli con su scritto attento alla testa. Che però inevitabilmente e contemporaneamente non possono che certificare l'impossibilità di aggirare l'ostacolo. Hier ist die Rose, hier tanze. Tutto ciò detto, al lettore avvisato, munito della sua valigetta culturale di cartone legata con lo spago, non resta che addentrarsi nella selva testuale. Si tratta in sostanza, provare per credere, di accettare l'annegamento, allentare una naturale resistenza che viene dal cervello nel tentativo di ricomporre un senso che non può essere il suo, dato che è cifrato con una chiave che possiede solo l'autore, una chiave "privata" per dirla in termini informatici, fruibile (o godibile) in maniera altrettanto privata, come "qualcosa di personale" (è il titolo del saggio di Zucco). Il panorama complessivo di qualcosa di familiare (anche a livello retinico, dice Zucco usando un termine duchampiano) aiuta solo fino ad un certo punto. Il libro infatti esibisce principalmente una forma nota poiché, come scrive Ceriani nelle note, "la 'risacca' che stampò questa piccola 'bibbia pregutemberghiana' fu incurvata sui sonetti", un sonetto variamente articolato, come dimostra Anna Bellato sul n. 16 de "L'Ulisse" (citata da Zucco, reperibile QUI). Qui sorge una delle domande "ulteriori" a cui accennavo prima (quoto Zucco): "E' da riconoscere, nella pratica del sonetto, un dato oppositivo rispetto all'uso della lingua?". In altre parole un ossimoro patente, qualcosa che punta in opposte direzioni (apparentemente), qualcosa di riconoscibile che contiene qualcosa (tornando a Viviani) di irrappresentabile?

Be', se ho capito bene la domanda di Zucco a me pare di sì, a me pare quanto meno che il metro e la forma classicheggianti, che in genere assumono una tonalità "comica"o melò, qui abbiano una funzione poetica, nel senso che Jakobson attribuisce a questa definizione, ovvero passano il compito di comunicare al ritmo, alla musica, alla rima, qualcosa che accarezza la mente mentre le parole ce la percuotono accuratamente di molti e diversi stimoli. Mentre la forma "conduce verso", la lingua "diverte", nel senso etimologico richiamato da Zucco, devia, crea una distorsione, uno scarto, un conflitto o corto, in maniera decisamente antifrastica. Qui la rima tuttavia, insieme ad altri marchingegni, va considerata in sinergia con la pienezza semantica del verso, annota il nostro commentatore, secondo due vettori di senso, quello appunto orizzontale e quello verticale a cui siamo stati educati dalla tradizione. Mi pare di poter aggiungere (ma si tratta anche per me di poco più di un appunto) che il singolo testo quasi mai è bastante a sé stesso, perché molti dei significanti trasbordano per varie ragioni e con varie modalità al testo seguente (spesso), o precipitano verticalmente all'interno dello stesso testo, a volte con un morfismo che dubito che sia attribuibile solo a una "normale" associazione di idee, poiché non avviene come "traduzione" lineare ma con una torsione, una manipolazione anche ironica del conseguente che metterebbe a dura prova anche chi delle associazioni ha fatto una base scientifica di interpretazione (a partire almeno da Stuart Mill). Può capitare, tanto per fare un esempio, di trovare "catene" come Chopina > houslista (violinista, in ceco) > istromento > gravicembalo > laticlavio > Das wohltemperierte Klavier > Témpralo! (pag. 14), con uno "sbocco" nel testo seguente (pag. 15) in Clara Wieck (pianista, moglie di Schumann) > laticlavio > clavecin (clavicembalo, in francese). Clara si ritrova poi nel testo seguente. O si può incontrare a pag. 17 una Omeopàtra che "slitta" a pag. 18 in un Antonio > mastrantonio > mastrottavio (e ritorna laticlavio). Esempi tutto sommato banali , ma che danno l'idea del lavoro (enorme) che sarebbe possibile fare, in una sede che non sia un semplice post, rispetto alla complessità di questo libro, lavoro anche di competenza linguistica, dati i numerosi inserti di diversi idiomi. Come diceva proprio Jacques Geninasca in una intervista, poi alla fine un senso deve pur esserci, si tratterebbe solo di trovarlo. Certo farsi capire, almeno in senso stretto, non è lo scopo principale di Ceriani, una mente che non si accontenta. Basti considerare i testi che compongono la IV sezione del libro, scritti in "una delle tante varianti 'barbariche' dell'Alto milanese" e del tutto privi della consueta versione in lingua di accompagnamento. Un'altra "attesa" disillusa, ma Ceriani anche qui ci avverte che "esso [dialetto] non tollera che lo si rassegni o versi, con quelle sue ceneri callidamente vermiglie o arcigne, nelle esanimi urne dell'italiano". E io gli credo, mentre mi chiedo, leggendolo, se tra i suoi "avi" non figuri anche Carlo Emilio Gadda, uno di cui Emilio Cecchi scrisse "invece che in una lettura che, a così esprimerci, procedendo da sinistra verso destra, rigo per rigo, sdipani e segua la causalità degli avvenimenti, si direbbe che [...] vada esplorato pagina per pagina, secondo una lettura verticale, come quella d'una partitura d'orchestra, dove si inscrive prospetticamente il legame e l'implicazione delle singole voci e degli strumenti, nella risultante di una foltissima polifonia". Già, chissà, il pastiche, le enumerazioni, le copie lessicali, la "disarmonia prestabilita"...

Mi rimane il dubbio, per concludere, che una delle chiavi di interpretazione, se vogliamo ostinarci a trovarne una, potrebbe essere quella della produzione - da parte di Ceriani - di una tentacolare metafora di tipo cognitivo (Lakoff e altri), una mappatura culturale dell'esperienza propria che l'autore sovrappone per mezzo del linguaggio "privato", del suo codice, del suo dominio, al dominio della realtà, per quanto irrappresentabile essa possa essere, ma considerata come uno spazio impressivo, per usare ancora un concetto geninaschiano, qualcosa di estetico, pre-logico, anche ludico (e quindi ironico).

In attesa di capirne di più, rimaniamo intanto al consiglio di Ceriani: "per quel che già s'è detto, conta alla fine più del lauto boccone la briciola, la briscola più che la picca". (g. cerrai)


Turingia o Turenna che se a Sparta rintocca
L'Angelus e ad Atene una pellagra di nòttole
Gorgheggia al climaterio invece dell'aspide
Per l'otite il sordo a chi gli mormora frottole
All'orecchio non senta colei che mostra la ràgade
All'ano, c'è caso, per mascherare quella che ha in bocca?


Oh la rosa pari all'alpe
Ch'a dieci punte decacùminasi
Com' a Dante cento scarpe
Per l'Appennintontimorùmenasi ------


Della quercia, questa parabola...


e Chatila, quando agli stretti dì di quaresima
Gesù parteggia per il pane e Cristo per il vin che millesima...


nega solo se vi fruscia la predica
di Priamo che versa sopra la stuoia
una fiala come se Simoenta e Scamandro...
[dessero di cozzo con la pala del cancro]


mangia zucchero da palmi di madia
in un eremo che con rami in acconto
sbalza semi come bussole il dado...

* E, scorpione, così veneficiarti


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