Potresti sintetizzare la tua storia e l’evolversi della tua passione musicale? Ho ascoltato tanto rock fin da piccolissimo, grazie ai miei due fratelli più grandi, musicisti a loro volta. Dopo un breve periodo passato a suonare la batteria, ho scelto di continuare con il basso. I miei punti di riferimento erano Steve Harris e Geddy Lee. Furono proprio i Rush a stimolare la mia curiosità, a farmi desiderare di essere un musicista migliore. Dai 13 anni in poi cominciai a interessarmi al jazz, al progressive rock, al funk; ascoltavo e cercavo di suonare tanti stili diversi, tirando giù le mie parti di basso preferite a orecchio. In quel periodo mi feci le ossa suonando i primi concerti dal vivo. La scoperta dei King Crimson e di tutto l’universo musicale a loro correlato fu un altro momento cruciale. Arrivai a David Sylvian e tornai indietro alla new wave degli anni ‘80. Gli XTC furono una rivelazione: erano pop, ma allo stesso tempo intriganti, profondi. Mi appassionai alla composizione e scrissi le mie prime canzoni. Nel tempo ho accumulato diverse esperienze, sia in studio che dal vivo, e la mia evoluzione come musicista va di pari passo con quella di ascoltatore. Ho sempre avuto un approccio molto istintivo alla musica, sia nel suonarla che nell’ascoltarla. Leggendo la tua biografia emerge una certa trasversalità di azione, ma… come definiresti la tua proposta musicale? La mia casa discografica ha utilizzato la definizione ‘art-rock’, che non mi dispiace. Personalmente, non riesco mai a dare una risposta precisa a questa domanda. Non mi piace categorizzare troppo la musica, e questo atteggiamento si riflette pienamente in quello che scrivo e suono. Non è qualcosa che faccio di proposito, è un processo assolutamente spontaneo. Di solito le mie canzoni nascono dal pop, o meglio da un certo ‘suono pop’, e sono arricchite di volta in volta da una moltitudine di elementi e riferimenti. Qualcuno mi definisce ‘progressive’, ma onestamente non penso di poter essere inserito in quel filone. Bill Bruford diceva di essere troppo rock per il pubblico jazz, e troppo jazz per il pubblico rock. Io potrei dire di essere troppo poco rock e troppo poco prog, sempre rimanendo dell’opinione che definire un genere, o stabilirne i confini, sia davvero molto difficile. Il termine ‘pop’ dopotutto ha un campo semantico piuttosto ampio, penso che possa calzarmi bene. Uno dei tuoi obiettivi è quello di rompere un po’ gli schemi, e trovare un modo nuovo, o quantomeno originale, di fare musica: a che punto sei nel tuo percorso? Ti puoi ritenere soddisfatto di quanto hai realizzato sino ad oggi? Sì, sono contento di quanto prodotto finora, anche se non mi ritengo mai soddisfatto al 100%: sono un perfezionista, un irrequieto! Quello che posso dire è che ogni volta affronto la produzione di un album come se fosse l’ultimo, cerco di dare veramente il meglio. Al tempo della realizzazione di “One Time, Somewhere” non ero sicuro che ci sarebbe stato un seguito. Penso che il percorso continuerà ancora a lungo, ma non riesco a prevederne gli sviluppi. Idealmente, mi piacerebbe scrivere un nuovo album e mettere un punto a questa personale ‘rivisitazione del pop’, formare una trilogia con i due dischi che finora sono riuscito a pubblicare. Dopodiché mi piacerebbe cominciare una nuova fase. Mi parli del tuo nuovo album, “Dime Novels”? “Dime Novels” è un album eterogeneo, molto ricco, variegato, in alcuni punti anche ironico. Considero queste canzoni alla stregua di mini-colonne sonore: a volte sono partito da un’immagine, altre volte da un testo, altre volte ancora da un sogno (o da un incubo). Si tratta di trasferire delle sensazioni in musica, e spesso la composizione prende una rotta inaspettata. Non pongo limiti di nessun tipo alla creatività. Il disco è stato prodotto in collaborazione con Francesco Zampi, che mi aiuta a concretizzare le idee e a metterle su disco. E spesso mi riporta con i piedi per terra! Il disco vede la partecipazione del Tony Levin Trio (Levin, Mastelotto e Reuter): come nasce la collaborazione? Quanto ti senti vicino alla musica dei King Crimson? Sono un grande appassionato dei King Crimson. Sono sempre stato attratto dalle loro luci e dalle loro ombre, specialmente da quest’ultime. Come altri artisti che ammiro, sono riusciti a reinventarsi di volta in volta in maniera creativa e intelligente. Hanno saputo attualizzarsi quando ce n’era bisogno, senza compromettere la qualità della propria musica. Hanno sempre esplorato nuovi territori. In questo senso, mi sento molto vicino alla filosofia dei King Crimson: Robert Fripp li ha definiti “un modo di fare le cose”. Mi rispecchio in quell’affermazione. Che importanza hanno per te le liriche? Nel tuo senso estetico e armonizzante entrano anche le parole, o sono solo un veicolo per i tuoi messaggi? Anni fa non davo troppo peso alle parole: le consideravo come un ornamento alla musica. Le cose sono cambiate gradualmente, con il tempo ho cominciato a pretendere di più dal processo di ascolto; cercavo qualcosa di più profondo. Un po’ alla volta mi sono reso conto di quanto fosse importante il testo, di quanto possano essere forti le parole, specialmente se combinate a una grande partitura. Penso per esempio a “Wish You Were Here” dei Pink Floyd; a qualsiasi cosa scritta da Peter Gabriel o David Sylvian, giusto per citare qualcuno. Paul Buchanan dei The Blue Nile ha sempre scritto versi semplici ma evocativi, estremamente poetici, miscelati magnificamente con la musica. Per quanto mi riguarda penso di aver fatto progressi in questo senso, sono soddisfatto dei testi di “Dime Novels”. Non mi sento un grande paroliere, e nemmeno un grande cantante, ma sento il bisogno di scrivere i testi di mio pugno e di cantarli in prima persona. Che cosa accade nei live di Marco Machera? Sento di dover ancora trovare una giusta dimensione per i miei live. L’anno scorso ho portato in giro la musica di “One Time, Somewhere” senza troppi fronzoli. L’esperienza è stata positiva, ma sono convinto che questo materiale abbia bisogno di una controparte visiva, teatrale, per poter esprimere al meglio tutte le sue potenzialità. Al momento non ci sono date in programma per promuovere “Dime Novels”, principalmente perché diventa sempre più difficile trovare spazi e contesti adeguati dove potersi esibire. Detto questo, se arriveranno proposte le valuterò volentieri; nel frattempo ragionerò su come rendere più interessanti i miei concerti dal vivo: pensavo al contributo di un performer, a proiezioni video, oppure illustrazioni create da un artista in tempo reale. Vedremo. Che cosa lega One Time, Somewhere al nuovo lavoro?
I due lavori sono stati composti e registrati in maniera simile. Nonostante ciò, penso che “Dime Novels” sia molto differente da “One Time, Somewhere”: è più corposo, a tratti più cervellotico, meno rassicurante. Però esiste indubbiamente un filo conduttore. Ci sono delle caratteristiche nella composizione che accomunano i due dischi. Credo di aver trovato un mio suono e una mia personalità, che affiorano in entrambi gli album. Tecnologia, sperimentazione e web: che cosa ti ispirano questi tre “enormi” sostantivi? Hai detto bene, sono sostantivi enormi. E sono fortemente in relazione tra loro. Il musicista di oggi non può permettersi di suonare e basta. Ormai siamo gli imprenditori di noi stessi, e questo ha dei vantaggi, ma porta via tanto tempo. Il web in questo senso è fondamentale. Si ha la possibilità di raggiungere nuovo pubblico e di percorrere strade che altrimenti sarebbero precluse, ma tutto ciò dovrebbe rappresentare un aspetto complementare della nostra attività. Dobbiamo ancora essere capaci di attaccare un jack all’amplificatore e suonare bene il nostro strumento. Se siamo bravi nel nostro lavoro, allora il web e la tecnologia saranno sicuramente d’aiuto. Altrimenti si tratta di aria fritta. Per quanto riguarda la tecnologia in senso strettamente musicale, direi che mi piace da matti torturare il mio computer quando si tratta di comporre e registrare del nuovo materiale. Adoro l’aspetto creativo del lavoro in studio, creare musica attraverso la tecnologia. Mi piace sperimentare, appunto. Dal vivo invece ho un approccio più tradizionale, preferisco il suono naturale dello strumento, senza farlo passare per troppi effetti. Come immagini – o come vorresti che fosse – il tuo futuro prossimo? Non riesco davvero a immaginarlo. Però sono certo che suonerò e registrerò musica per molto tempo ancora. Tanto mi basta.
Data di pubblicazione: 28 Gennaio 2014 Casa discografica: Innsbruck Records Sito ufficiale: www.marcomachera.com Produced by Marco Machera & Martina Sacchetti Co-produced, tweaked, mixed and mastered by Francesco Zampi Recorded between April 2012 and September 2013 in studios across Italy, USA, UK, Austria. All songs written by Marco Machera, except “John Porno” written by Marco Machera and Markus Reuter. Marco Machera © 2014 all rights reserved. Arrangements by Marco Machera and Francesco Zampi Cover and artwork design by Marco Lafirenza Personnel: Marco Machera: Vocals, Bass (2, 3, 4, 6, 7, 8, 9), Guitars (1, 2, 3, 5, 6, 7, 8), Harmonium (1), Banjolin (4), Ukulele (4), Samples, Drum Programming (3, 6, 7, 9), Percussion (1, 4, 8) Francesco Zampi: Sound Design, Treatments, Cello (1), Piano (1, 5) Hammond (2), Dobro (4), Samples, Drum Programming (7, 8) Pat Mastelotto: Drums & Percussion (1, 2, 3, 5, 6) Tony Levin: NS Upright Bass (5) Markus Reuter: U8 Touch Guitar (3, 8) Andrea Faccioli: Guitars (1), Autoharp (1), Lap Steel (4), Bouzouki (5) Jennifer Maidman: Cuatro (4)
Pete Donovan: Double Bass (1) Kevin Andrews: Additional Bass (1)