Marco Olmo, il corridore

Creato il 02 ottobre 2012 da Tipitosti @cinziaficco1

“Mi volto e le mie orme sono già sparite. Ma io so di esserci stato. So di aver vinto la battaglia più grande, quella contro me stesso. Di essermi riscattato per tutte le cose perdute, o lasciate andare via. Questo è tutto ciò che importa. Un soffio di vento sulle dune. Un niente. Una vita vissuta fino in fondo, ma senza lasciare traccia”.

Spesso si guarda allo specchio e si chiede: “Sono io quel vecchio lì?” Sì, perché, se da una parte il suo corpo non nasconde il peso dei suoi sessantatré anni, dall’altra, la voglia di correre e vincere, brucia ancora. Nessuno, guardando la sua barba e i suoi capelli grigi, il suo viso solcato dalle rughe, direbbe mai che ha la stoffa di un campione. 

Eppure, Marco Olmo, nato ad Alba nel ’48, un gran tipo tosto, lo è davvero. E non in uno sport qualunque, ma nell’ ultra trail, una disciplina estrema, che significa decine, centinaia di chilometri di corsa sui terreni più impervi e con temperature parecchio insopportabili, sulle Alpi o nei deserti.

Marco corre ormai da 36 anni e quando lo fa nelle sue Phantom Mizuno prova una felicità estrema. E’ stato boscaiolo e camionista, infine operaio per ventuno anni in una grande cementeria della provincia piemontese. Poi, all’improvviso, è iniziata la sua straordinaria avventura di corridore.

Ha cominciato “quando gli altri smettevano, all’età di 27 anni”  – si legge nel libro, che ha scritto con Gaia De Pascale: “Il corridore . Storia di una vita riscattata dallo sport”, Ponte alle Grazie, editore. La corsa è diventata un modo per riscattarsi.

Ma da cosa? Olmo viene dal mondo delle montagne, sconfitto dalla civiltà industriale. La sua traiettoria è ben più di un eccezionale exploit sportivo. E’ un’occasione unica di rivincita, una vittoria profondamente umana. E’ da lì che il corridore distilla, misura lentamente la sua forza e la conserva per altre gare.

Marco non ha intenzione di fermarsi. Potrebbe farlo. La sua collezione di coppe e successi già ce l’ha. Dopo un periodo passato a gareggiare e a vincere nella corsa in montagna e nello scialpinismo, all’età di 40 anni, ha iniziato ad affrontare competizioni estreme come la Marathon des Sables, 230 chilometri in assoluta autosufficienza alimentare e in condizioni climatiche proibitive, la Desert Cup (168 chilometri nel deserto giordano),  la Desert  Marathon in Libia e la Maratona dei 10 Comandamenti (158 chilometri sul Monte Sinai), raccogliendo grandi soddisfazioni. Ma di smettere proprio non ha voglia.

A 58 anni è diventato Campione del Mondo, vincendo l’ultra trail du Mont Blanc, la gara di resistenza più importante e dura del mondo: 167 chilometri attraverso Francia, Italia e Svizzera, oltre 21 ore di corsa ininterrotta attorno al massiccio più alto d’Europa. E cosa continua a dire? “Conosco il mio corpo e so dove mi può portare. Lontano”. E in effetti, con i suoi quasi 6 mila chilometri l’anno, da 36 anni, ha già fatto quattro volte il giro del mondo.

Un po’ crudele nei confronti del suo fisico. Ma, è solo così che Marco riesce a trovare benessere.

E pensare che tutto è cominciato dopo una banale caduta dalla moto nel suo cortile, con una frattura del piede, che lo ha costretto a stare immobile per otto giorni in ospedale. “E’ stato allora – dice – che, guardando dietro le finestre le mie Alpi, ho pensato che sarebbe stato bello visitarle a piedi.  E’ stato faticoso cominciare, perché avevo dolore al piede. Ma non mi sono tirato indietro”.

Così per Marco è iniziata la passione per la corsa. Non ha mai saltato gli allenamenti, piuttosto pesanti, fa capire, “perché si cerca sempre di diventare più veloci”. A supportarlo c’è sempre stata la sua compagna Renata.

Ma leggendo il libro, viene fuori una certa rabbia. Un profondo rancore. Corre per liberarsi, riscattarsi da qualcosa?

Beh, chiunque gareggi, cerca di dimostrare qualcosa. Io, correndo, ho dimostrato a chi mi derideva per l’età, che, quando c’è la passione, si può riuscire sempre. E poi corro per le mie montagne.

La gara più bella?

Dirle quale sia stata la gara più bella, è impossibile. Ogni gara può essere indimenticabile, perché si corre in un posto meraviglioso, per aver battuto se stessi, per il calore di chi fa il tifo per te, per l’importanza della gara.

Non sente la stanchezza?

Certo che la sento, ma mi sono abituato. Ora mi sveglio alle 6, mi alleno tra l’1,30 e le 2, poi faccio una passeggiata, qualche lavoretto in casa e mi riposo. Era dura quando lavoravo. Ma ora non ho allenatori, che mi impongano tabelle di marcia. Lo faccio come hobby. Sono libero.

A cosa pensa quando corre?

Guardo i posti in cui corro. Penso a Renata che si preoccupa. Correre mi ha fatto conoscere il mondo.

Non si annoia mai?

Guardi, quando sono sulle montagne non conta lo spazio, conta il tempo. E per ogni spazio immutato ci sono le stagioni a cambiare le regole del gioco. La temperatura, il meteo, il vento che soffia o non soffia a muovere le foglie sugli alberi o a congelare il sudore della maglietta. Niente mai resta uguale. E se non basta il lento mutare del cielo, c’è comunque l’obiettivo a tenere tesi i miei muscoli, a pompare adrenalina. Avere uno scopo nella corsa è tutto. Proprio come nella vita. Eppure anche in gara, mentre si è dentro quello stesso scopo, si può affacciare la noia. Per esempio, quando non ti riesce una rimonta. Ma se la tua rincorsa funziona, tutto cambia.

Lei dice “Conosco me stesso. So dove il mio corpo può portarmi. E cioè lontano”. Si sente quasi onnipotente?

No, conosco i miei limiti. Certo, ho preteso molto.

Teme la vecchiaia?

Ormai sono vecchio.

E quando non potrà più correre, cosa succederà?

Cercherò di farmene una ragione. Spero non sia tanto difficile. Mi dirò che sono stato fortunato e che ho corso tanto.

Per chi corre?

Prima per me. Poi ho scoperto che quando vinci, corri per non deludere le aspettative degli altri. E questo mi pesa tanto.

Si sta preparando per un’altra gara?

Tra pochi giorni andrò in Portogallo per una maratona in montagna.

Una frase, un’immagine per descriversi?

Sì, c’è una di Bertolt Brecht, che dice: “Tutti a dire della rabbia del fiume in piena e nessuno della violenza degli argini che lo contengono”.

                                                                                                                  Cinzia Ficco


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