Tutti ne abbiamo una, chi due, altri tre. Chi ce l'ha naturale, biologica, adottiva. Ci sono quelle buone e quelle cattive, quelle che picchiano e poi ti riempiono di baci o quelle che ti riempiono di baci e basta. Ci sono quelle rigide, quelle permissive, quelle assenti, quelle troppo presenti e quelle che ti vergogni di presentare. Ci sono le superimpegnate, quelle che ti rubano i vestiti, quelle piene di acciacchi e quelle che più invecchiano e più ti sembrano umane. Una parola, la prima probabilmente: mamma.
Marco Peano è un ragazzo di 36 anni che lavora per Einaudi e ha scritto un libro edito da minimun fax, L'invenzione della madre. Ve lo dico già subito, così non dovete aspettare la fine della recensione: è bello. Forse uno dei libri più tristi e belli che io abbia letto negli ultimi anni.
Non solo è bello ma è anche ben scritto. La storia è quella di Mattia che racconta la malattia della madre, un cancro incurabile. Ma non è la storia della malattia quanto di tutto quello che ruota attorno ad essa. La malattia è la compagna di banco della perdita di indipendenza del malato e di chi gli sta accanto, è l'amica dei convenevoli degli amici che provano compassione, è il preludio di una morte certa che lascerà un vuoto tra gli affetti più cari. Mattia ci racconta attraverso vari flashback tutto questo, con rabbia, tristezza e ossessione.
Un'ossessione per la madre in cui - ahimè - tutti possiamo e riusciamo ad immedesimarci. Il non voler perdere una persona a nessun costo, il volersi attaccare ad ogni spiraglio di speranza, il voler cominciare a raccogliere ricordi da imprimere nella memoria prima che tutto possa finire.
L'obbligarsi a ricordare tutto per evitare che cada nell'oblìo. Odori, sapori, parole, immagini diventano per il figlio nutrimento, una sorta di latte materno da suggere avidamente e senza vergogna.
Peano ci mostra un universo di dolore così realistico (viene da chiedersi se l'abbia provato davvero sulla sua pelle) da non poter fare a meno di calarcisi dentro. La mamma di Mattia è la nostra, il papà è anche il nostro, la fidanzata di Mattia è la nostra, noi siamo Mattia. Noi la curiamo, la laviamo, la imbocchiamo, compiamo piccoli gesti che agli occhi degli altri possono sembrare folli e strani ma che guardati con gli occhi velati di lacrime di chi sa cosa vuol dire perdere "l'affetto primario" non sono poi così assurdi. La bellezza del libro sta nel non scadere mai nel patetico, la bravura dell'autore è stata quella di oscillare tra il tragico e l'ironico e mostrare che un simile argomento può essere trattato con una delicatezza intima.
Figli si nasce, e non si diventa. Noi nascemmo.