gemma chi di biddizza si cumpiaci,
o rosa chi ciurisci
e ridi allera
pi triunfari
nta li megghiu vasi,
tu sicca mori
senza mai tuccata
e ti sperdi a lu ventu
c’un suspiru.
Un saggio di Marco Scalabrino e sette poesie di Maria Favuzza
Maria Favuzza nacque a Salemi (TP) il 24 Dicembre 1901 e morì il 14 Febbraio 1981. Il tempo nondimeno, i 30 anni trascorsi dalla sua scomparsa, non ne hanno affievolito l’affettuoso ricordo in quanti l’hanno conosciuta e amata, né ne hanno sbiadito la levatura del poeta.
La sua silloge Poesie vide la luce a Palermo nel 1976 e, a riconoscimento della validità del suo dettato, Gioacchino Aldo Ruggieri la incluse nella raccolta di poesia dialettale inedita o poco nota dell’Ottocento e Novecento da lui curata e titolata Amore di Sicilia, assieme con nomi all’epoca quotati quali: Emanuele Angileri, Liborio Dia, i Fratelli Giangrasso e Mariano Lamartina, ed altri.
Impiegata presso l’Ufficio Registro di Salemi, seppe dotarsi dei mezzi linguistici e culturali atti ad esprimere in un buon Italiano la propria Weltanschauung. Ebbene, perché il Dialetto? La risposta credo sia semplicemente perché “quell’arcobaleno di ricordi, variegato di tinte chiare e scure sul lungo spazio di una vita“, quelle poesie, nate col deliberato proposito di fissare esperienze e sensazioni, sono state concepite giusto così, sono state scritte in Siciliano perché il suo sentire era siciliano, i suoi pensieri nascevano in siciliano, il suo animo era convintamente siciliano. E pertanto la sua predilezione del Dialetto è da stimare una opzione pienamente responsabile.
Muddicheddi, la sua opera più apprezzabile sia per la quantità che per la qualità dei contributi e dei temi, pubblicato nel 1985, risulta essere un libro postumo. Un omaggio, vedremo, doveroso quanto meritato. Il titolo, di un primo acchito, parrebbe discendere dall’omonimo brevissimo testo a pagina 75, nell’accezione di briciole, piccolissime dosi di checchessia; ma, invero, esso ritengo abbia inteso delineare l’atmosfera minimale che regola l’antologia nella sua interezza; quantunque, constateremo, i rimandi, le seduzioni, le prerogative travalicano poi di fatto quella esteriore etichetta.
Sostenuto dalla famiglia dell’Autrice, la quale ne ha evidentemente voluto rispettare la volontà, “Non strappate il mio mondo fatto di carta. Ogni parola, purificata nel silenzio, allontana ogni colpa, diventa fiore azzurro bagnato di cielo“, Muddicheddi, con prefazione di Calogero Conforto, è stato stampato, a cura del Circolo di Cultura “Buoni Amici” di Salemi, dalla Cored Edizioni di Mazara del Vallo.
Il libro si apre con il componimento A SALEMI, nove quartine di endecasillabi (verso, l’endecasillabo, che Ungaretti definì “la combinazione elegante delle nostre parole”) con rime alternate ABAB. Un idilliaco messaggio d’amore e di appartenenza alla sua città, “muntagnedda duci / c’hai l’aria frisca… chi porta… ciavuru d’erva, menta, alufareddi… [e] lu celu assunnateddu lu talia“. Un testo manifestamente tenero, in ciò assecondato da un copioso ricorso a diminutivi e a vezzeggiativi – peraltro largamente diffusi in tutta la sua produzione – il cui programmatico utilizzo palesa la connotazione di leggiadria, di intimità, di infinito prossimo da cui scaturiscono i versi. E con questa accentuazione invero essi ci vengono offerti dall’Autrice, ancorché l’ortografia esibisca sostanziali accuratezza e coerenza; fattori questi che consentono loro di aggirare le insidiose secche del vernacolo.
Il tema, benché con un taglio più squisitamente storico, è ripreso nel testo dal titolo LU ME PAISI: “Scunfittu e assicutatu lu Burbuni, / la prima dittatura pruclamata / di Garibaldi assemi a li Picciotti, / Salemi, frac e tuba, l’ha firmata“. L’argomento tuttavia non è, per Maria Favuzza, di quelli che si esauriscono sbrigativamente ed ecco un terzo componimento, CENA DI SAN GIUSEPPI, viene indirizzato a Salemi, “lu caru me paisi“, colto stavolta all’insegna del fervore religioso, della devozione spirituale che si combina alla larga adesione popolare. E Maria Favuzza allestisce una minuziosa e baluginante descrizione della Cena di San Giuseppe, celebrazione che si svolge nel giorno della festa del santo il 19 Marzo e che lei rende dinamica, icastica ai nostri occhi, ben oltre qualsivoglia depliant turistico: cena di “fidi, oduri, / grazii. Di fulcluri tramannatu, / di genti timurata“.
I testi immediatamente successivi a quello d’apertura investono subito il nucleo dei motivi che più hanno fatto vibrare le sue corde: gli affetti e il focolare domestico, la “roba”, il lavoro e tutto quanto a questi mondi collegato. La naca… lu cucchiaru, la piattera, li luma, la campana…, e poi tazzi, bucala, cicari, bicchiera… ‘nciratina… gli oggetti della vita familiare, la “misura” dell’esistenza quotidiana. Realtà dura, “Setti rispiri dintra na casuzza / si spartinu lu lettu / e lu panuzzu“, che è sì povertà ma anche dignità, che sa coniugare la drastica pratica con un atteggiamento di fiducia, nella quale la Natura con il suo variegato campionario di flora e di agenti naturali: nuvole, vento, cielo… domina e il sole, astro primeggiante, nel suo vessillo di luce, di calore, di vita dunque, rischiara, riscalda, rincuora.
Lo sguardo di Maria Favuzza avvolge carezzevole, elenca, nomina quelle cose, la sua penna le ferma, le scrive, le imprime sulla carta, nella volontà, nella responsabilità di perpetuarle, più che per sé per gli altri, per quelli che verranno dopo, per coloro che a quel contesto storico, sociale, culturale non sono appartenuti o sono appartenuti solo di striscio, e non avranno perciò modo di conoscerlo, di viverlo tranne che ripercorrendolo nel verbo immortale del Poeta (“può morire Giove – Carducci docet – ma l’inno del poeta resta”). E, dicevamo poc’anzi, il lavoro, in un’epoca in cui le macchine erano un miraggio e l’uomo svolgeva le proprie occupazioni, che connaturate alla oggettività rurale del territorio e del tempo erano principalmente quelle dei campi, con il solo ausilio degli animali: LU SCICCAREDDU DI LA SENIA, remissivo, pasinziusu, “cu l’occhi binnati“, che un giro dopo l’altro “sciogghi na canzuna a lu silenziu di la sira“. In tale clima, lirico quanto realistico, nostalgico quanto attento alla ineluttabilità del mondo in travolgente evoluzione, concreto quanto orientato alle istanze dello spirito, si innesta il recupero di un lessico svigorito o di imminente declino: iffula (matassa), caiuna (dirupi), pilusci (pellicce), chiumazza (materassi), ragnola (grandine), balacu (violacciocca), sciavateddri (mufuletti), sagnaturi (mattarello), ammartucata (debilitata), mirriuni (fazzoletto annodato alla nuca), lungo il monito di Pietro Tamburello per cui “ogni palora persa / nanticchia di Sicilia si ni va“.
Ci sono delle immagini ricorrenti nella poesia di Maria Favuzza: “lu patri [chi] torna versu sira“, “lu cani [chi] abbaia“, la pasta “stisa a li canni“, a comprova che questi frangenti attenevano a quel vivere, al vivere suo e a quello dei suoi coevi. La figura sociale del padre, peraltro, è ben assidua nella sua produzione al pari della figura della madre. Quanto a questa, la quale “tinia d’occhiu lu porcu, li addrini, / lu furmentu“, il fare la calza con gli aghi, “busi [chi] chiacchiarianu… agghiuttinu cuttuni“, e fanno crescere “la quasetta” non ne alleviano la pena allorquando, come spesso avveniva e tuttora avviene alle nostre latitudini, lei vede il proprio figlio andare via, emigrare in cerca di fortuna. Quel cammino della speranza piuttosto, quella “fuga” in terra straniera, quell’andare “senza turnari chiù“, è da lei percepito col dolore di chi sente calpestare la propria persona, diviene “lamentu longu, senza na palora“, “chiantu / chi si sicca nta la manu“.
Ma il suo è un caleidoscopio riccamente mutevole: una affascinante, femminile, riedizione mitologica della Sicilia, in base alla quale essa ha avuto origine da uno scialle che la luna “avia supra li spaddi” e che un “ventu vagabbunnu… c’un sciusciu” fece cadere sul “mari cristallinu” dispiegandolo a forma “di tri pizzi arriccamati“; “lu trangulu“, da “tranguliari” nella nozione di scuotere con forza, scrollare, traballare, il tipico movimento che accompagna, all’armonia delle “cianciani” e delle “canzuni“, il passo del carretto, “trufeu anticu“, tirato dal cavallo impennacchiato e condotto dal “carritteri cu la zotta ‘manu”; la malinconica percezione, non esente da una vena di rimpianto, di un mondo agreste che non è più: “lu trappitu, la mola, l’aratu, li vamperi, la rasula, lu tripporu … li casi di lu feu petra su petra / caderu a pezzi, ‘mmezzu la campagna“, e di esso, “chi di biancu vistia amuri e cori“, “sulu lu riordu tampasia“.
Quanto detto parrebbe a sufficienza promuovere la poesia di Maria Favuzza, ma… “È la forma – sostiene Attila József – che fa l’arte, benché il carattere artistico essa lo riceva dal significato, dal contenuto“. E allora sfogliamo insieme alcune delle formulazioni della sua poesia: l’immagine graffiante di “La terra vugghi / di caluri e ciàvuru“; l’illustrazione dei giochi innocenti dell’infanzia, fatti di poco, quando non addirittura di nulla e, cosa più di ogni altra, condotti all’aria aperta: “na nuvula… cuntenta chi na petra… po dari tanta gioia ad un nuccenti… na stidda… caduta di lu celu… fatta di lanna lustra di pignata“; il quadro immaginifico per cui, partendo da spunti esili che le virtù del poeta elevano a dignità d’arte, “nta na stratuzza funna e silinziusa“, il sole scende ammirato a giocare con un gruppo di ragazzi.
Un componimento, NTA NA STRATUZZA, di grande perizia, da leggere con dedizione, con coinvolgimento, con riguardo alle scansioni, al fine di assaporarne la tensione lirica, penetrarne i gradi di invenzione, condividerne la meraviglia della icona. Un convinto plauso a uno fra i testi migliori della crestomazia al quale nella sua interezza vi rimandiamo e di cui, solo a mo’ di assaggio, si riporta una quartina: “Nta na stratuzza funna e silinziusa, / c’è sciamu di picciotti ed alligria; / lu suli scinni a fari assemi un gniocu, / s’assetta a lu bastiuni e li talia.” E per arrotondare questa rapida rassegna: “lu pani di casa… [chi] ogni simana ‘n casa si facia.” Una festa di gioia e di bontà da seguire passo passo, in cui, nelle circostanze delle festività: Natali, Pasqua, Carnalivari… che nel corso dell’anno si susseguono, si imbandiva “lu tavuleri” con “ficusicchi, sfinci, cucciddati, tagghiarini, stufatu…“, e leggendo e vedendo, e calandoci senza resistenza in quell’ologramma, ne seguiamo ed apprendiamo il procedimento di preparazione, ne percepiamo la fragranza, ci sale l’acquolina in bocca, sentiamo e cantiamo, stando a ridosso del forno, la supplica che accompagna il culto con l’invocazione dei santi Antonu, Zita, Sidoru, Antuninu, Ati e Nicola. Ma il rito è propizio per manifestare alla “vicina incinta“, alla “cummari c’avia figghi“, attorno ai cuddrureddra, sciavateddri, miliddri… quei sentimenti di solidarietà, di calore umano che contrassegnavano la fetta più sana delle nostre comunità.
E ancora: “Curcatu lu silenziu supra un ciuri / svigghiava na nuttata di suspiri, / svigghiava na nuttata di duluri / e larmi, persi mmezzu a tanti spini“; “lu sicchiu pinnìa / supra lu puzzu… stancu di li scinnuti e l’acchianati.” Seducente il fotogramma “lu sicchiu… stancu di li scinnuti e l’acchianati“, come se fosse il secchio a dovere autonomamente procedere su e giù per il pozzo e non già il volere dell’uomo ad obbligarlo a forza a quel compito e a quell’andirivieni, non fosse viceversa l’uomo a provare quella spossatezza che, magari a causa delle condizioni di canicola estiva, tale attività determina.
E arriviamo, zoomando tra le pagine sia di Muddicheddi che di Poesie, agli esiti più allettanti e a qualche peculiarità. “Lu jornu… s’attacca ‘ntesta un fittu scuru velu” e un uccello cerca di “biccarisi lu celu / cadutu nta na zotta chi spicchia.” “Pinzeri virdi“, “scruscinu l’anni e comu chiummu pìsanu“. “Pinzeri virdi“, parafrasando una memorabile frase, è “un piccolo passo per l’uomo, ma un grande passo per la poesia dialettale siciliana”. Una, tra virgolette, rivoluzione legata sì alla fase della realizzazione, della scrittura, della traduzione del concetto in superficie vergata, ma che è compiuta già prima, e più, nel medesimo istante del concepimento dell’inconsueto accostamento tra pinzeri e virdi, nella specialità del timbro, nella suggestione, nella rigenerata energia che dalla aggregazione tra pinzeri + virdi si statuisce. Un sovvertimento, nella concreta esecuzione, nella locuzione autenticamente siciliana, nell’efficace dispositivo analogico, nella sublimazione del frasario quotidiano: “na casa / ntilarata di lacrimi e di risa“, “lu ventu arruzzulìa la megghiu vita, / dintra ‘na lanna vecchia ammattucata“, ovvero: “Scinnia la luna cu scarpi di sita“, “trova lu ventu mazzi di risati“; “La primavera dormi tra li ciuri.” Parole. Ma, parole che nell’alchimia del Poeta si animano, s’ammantano di costrutti che eccedono la loro semplice lettera; lemmi comuni che nel loro inusitato codice compongono scenari irrefutabilmente unici, disegnano profili squisitamente singolari, assurgono a originale tramite retorico con cui il Poeta restituisce – l’affermazione è di Viktor Borisovic Šklovskij – la “visione autentica del mondo“.
“La luna a la finestra di lu celu / spampina leggi veli di palluri.” Molti incipit di Maria Favuzza sono incisivi sotto il profilo dell’estro, del richiamo fonico ed emotivo, della enunciazione innovativa della cifra poetica. C’è una felice combinazione, che di certo non poteva essere casuale, un mix avvincente che nel trapanese ne fanno per l’epoca un raro, se non esclusivo, archetipo di autore incline a destreggiarsi fra la solidità della tradizione, fatta di rime, prevalente uso dell’endecasillabo, valori che pescano (bene) nel solco e nella saggezza della poesia popolare, e lo spirito, l’attitudine ad innestare in quel solco le piantine che daranno nuovi frutti, quindi forme, e nuovi colori, odori, sapori, quindi contenuti. La suddivisione, ovviamente, non è così netta e le due anime convivono fianco a fianco nella stessa cartella, si ammiccano a distanza nella stessa selezione, coesistono scambievolmente tollerandosi: in sintesi, tradizione e formalizzazioni liriche avanzate che si frappongono.
Un’unica notazione ortografica, ma ben più ad un approfondito esame si potrebbe sviscerare, concerne, precipuamente in Poesie, la nostra “c” dolce strisciante, sovente graficamente resa col segno “sc”: scipressi, adasciu, stasciuni, dusci, cunnusci, eccetera. Segno, la “c”, massimamente quella derivante dal fl latino, flatus, flos, flumen, e di conseguenza in Siciliano: ciatu, ciuri, ciumi, che altrove e in altri tempi – già Lionardo Vigo nella seconda metà del 1800 ne sollevò il problema della determinazione ortografica – è stato graficamente reso con la “x”, “xh”, “ç”, o per l’appunto con “sc”.
La poesia di Maria Favuzza trapela della identità dell’Autrice: semplice, radicata nel proprio territorio, dignitosa, rivelazione di sé, del suo tempo e della sua gente, nel cui linguaggio, ancorché guarnito dalla creatività, dal talento, dal “mestiere” di cui il Poeta è detentore, distilla pulsioni, vicende, inquietudini. Nell’avanzare del progresso tecnologico, “aggeggi moderni… chi fannu li sirvizza… senza pallari né curiusitari“, che ci trova impreparati, ci destabilizza, ci crea ansia per il futuro, “la casa nun mi pari chiù la stissa… a bidiri li mura cu fili e buttuna“, in contrapposizione ad una condizione sociale vieppiù imperante di solitudine e prostrazione, “eu sempri a lu scuru ammartucata“, Maria Favuzza si fa portavoce dello status di una generazione, delle vicissitudini, del costume, dei trasalimenti di una civiltà al tramonto e, nel clima rarefatto della rievocazione, la salva dall’oblio.
Si avverte una grazia tutta femminile nel dettato, un garbo remoto, di quando in quando una vena crepuscolare, “vita passeggera, / gemma chi di biddizza si cumpiaci, / rosa chi ciurisci / e ridi allera … tu sicca mori … e ti sperdi lu ventu / c’un suspiru“, “lu tempu pilligrinu / fa di lu ventu un chiantu“, “l’urtimu cappottu / chiusu cu lu buttuni di la cruci“, un tocco ognora rispettoso della “materia” che lei va a trattare, maneggiare, strutturare, perché lei presagisce essa è materia fragile, preziosa, materia in via di estinzione che il tempo ha reso unica, irripetibile.
Maria Favuzza è una vera scoperta o, per coloro che l’hanno conosciuta, apprezzata, letta, una fausta riscoperta. L’odierna commemorazione, della quale dobbiamo essere orgogliosi poiché la sua testimonianza per la cultura, la poesia, la storia siciliane assolutamente non debbono andare perdute, intende dunque proporsi quale l’opportunità per far riappropriare la poesia dialettale siciliana di una Autrice che dà lustro alla propria terra, che merita di essere celebrata per favorirne, ben oltre questa essenziale disamina, uno studio critico rigoroso e la ristampa organica delle opere.
* * *
Nta na stratuzza
Nta na stratuzza funna e silinziusa
c’è sciamu di picciotti ed alligria;
lu suli scinni a fari assemi un gniocu,
s’assetta a lu bastiuni e li talia.
Un picciriddu, lu chiù granniceddu,
porta comu un tesoru un aquiluni,
tanti culura appisi a un pizziteddu
agghiummuniatu di russu cuttuni.
Lu celu di la strata è troppu nicu
pi putiri iucari cu la stidda.
Lu sciamu sturdi, na porta si ‘rapi,
affaccia cu la scupa la za Pidda
e manna li picciotti chiù luntanu.
Ridi lu munnu di cori cuntenti.
L’occhi lucenti, li facci addumati,
curri un canuzzu, abbaia pi nenti,
va appressu a li picciotti scarmanati
chi vannu versu fora lu paisi.
Ora lu suli tuttu sta curcatu
supra lu virdi c’abbrazza la chiana.
Vola la stidda, lu lazzu camina,
mmenzu lu celu c’è un ciuri c’acchiana.
Na nuvula di velu e di puntina
tratteni un angileddu chi la chiama.
*
In una stradina
In una stradina profonda e silenziosa
c’è sciame di ragazzi ed allegria;
il sole scende a fare assieme un gioco,
siede sul parapetto e li osserva.
Un ragazzino, il più grandicello,
porta come un tesoro un aquilone,
tanti colori appesi a un pezzettino
raffazzonato di rosso cotone.
Il cielo della strada è troppo piccolo
per potere giocare con la stella.
Lo sciame sbanda, una porta si apre,
s’affaccia con la scopa la zia Pidda
e manda i ragazzi più lontano.
Ride il mondo a cuore pieno.
Gli occhi lucenti, le guance arrossate,
corre un cagnolino, abbaia per niente,
va appresso ai ragazzi scalmanati
che si dirigono verso l’uscita del paese.
Ora il sole tutto s’è coricato
sopra il verde che abbraccia la pianura.
Vola la stella, il laccio s’allunga,
in mezzo al cielo c’è un fiore che sale.
Una nuvola di velo e di merletto
trattiene un angioletto che la chiama.
* * *
Na notti di chiummu
Na notti di chiummu
stizziata di stiddi
tampasia pi li strati.
Nsunnatu lu silenziu
tagghia feddi scurusi di vaneddi.
Spiranzi allicinuti nta lu cori,
di ddi pinzeri virdi,
s’annacanu a lu ventu
supra ‘ntinni d’affetti.
Occhi luntani vardanu
lu tettu di na casa
‘ntilarta di lacrimi e di risa.
‘Nnuccenza viva, estati trapassata.
Lu ventu arruzzulia la megghiu vita
dintra na lanna vecchia ammattucata.
Scruscinu l’anni e comu chiummu pisanu
le peni e li pinzeri.
*
Una notte di piombo
Una notte di piombo
punteggiata di stelle
s’attarda per le strade.
Assonnato il silenzio
taglia fette buie di stradine.
Speranze rinsecchite dentro il cuore,
di quei pensieri verdi,
dondolano al vento
sopra antenne di affetti.
Occhi lontani guardano
il tetto di una casa
intelaiata di lacrime e di risa.
Innocenza viva, estate trapassata.
Il vento fa ruzzolare la vita migliore
dentro una vecchia latta malandata.
Rumoreggiano gli anni e come piombo pesano
le pene e i pensieri.
* * *
La casuzza di li setti ciati
Setti rispiri dintra na casuzza
si spartinu lu lettu
e lu panuzzu.
Lu cagnuleddu curri,
fa lu iocu
assemi a li mizzuddi
e a Pippuzzu
e allera lu silenziu di la strata.
Lu suli ucchiulia
‘ncapu la porta.
La corda e la furcina
sta a lu muru.
La matri stenni robbi
mentri l’aria
di nuvuli lu suli fa chiù scuru.
Poi un scrusciri di piatta
e cucchiareddi,
un sbattiri di robbi
ammazzuniati.
*
La casetta dei sette respiri
Sette respiri dentro una casetta
dividono il pane
e il giaciglio.
Il cagnolino corre,
improvvisa un gioco
insieme ai gemelli
e a Peppino
e rallegra il silenzio della strada.
Il sole fa capolino
sopra la porta.
La corda e la forcina
stanno a muro.
La madre stende i panni
mentre l’aria
di nuvole il sole fa più scuro.
Un rumore poi di piatti
e cucchiaini,
uno sbattere di panni
affastellati.
*
La luna
La luna a la finestra di lu celu
spampina leggi veli di palluri
cu sentimentu e nova fantasia
supra la terra carrica di ciuri.
Passa lu ventu e ridi a li iardina,
lassa vasuna e pollini d’amuri,
na nuvula vattia li gemmi novi,
l’arba li vesti di sita e culuri.
Cuntenta l’irvicedda annaculia.
Si specchia a lu canali e fa tuletta.
Lu pussaru nuveddu sta ammucciatu,
prova lu versu, adaciu lu gurgheggia
p’un fari arruspigghiari lu so amuri.
*
La luna
La luna alla finestra del cielo
dispiega leggeri veli di pallore
con sentimento e nuova fantasia
sopra la terra carica di fiori.
Passa il vento e ride ai giardini,
lascia baci e pollini d’amore,
una nuvola tiene a battesimo le nuove gemme,
l’alba le veste di seta e di colore.
Contenta l’erbetta si dondola.
Si specchia nel canale e fa toeletta.
Il giovane passero sta nascosto,
prova il verso, lo gorgheggia piano
per non fare svegliare il suo amore.
* * *
Stisu è un tappitu
Stisu è un tappitu
di culura sicchi
chi lu ventu iucannu
rufulia.
Chiovinu ‘n terra
pampini ngialluti
vasati di lu suli
e alitia
un ciauru
e un lamentu di culura.
O riordu di vita passeggera,
gemma chi di biddizza si cumpiaci,
o rosa chi ciurisci
e ridi allera
pi triunfari
nta li megghiu vasi,
tu sicca mori
senza mai tuccata
e ti sperdi a lu ventu
c’un suspiru.
*
Steso è un tappeto
Steso è un tappeto
di colori secchi
che il vento giocando
fa vorticare.
Piovono a terra
foglie ingiallite
baciate dal sole
e si spande
un profumo
e un lamento di colori.
O ricordo di vita passeggera,
gemma che di bellezza si compiace,
o rosa che fiorisce
e ride allegra
per trionfare
nei più bei vasi,
tu appassisci e muori
mai toccata
e ti disperdi al vento
con un sospiro.
* * *
Lu strascicu
Lu tempu comu zingaru
strascina nta lu trainu
risati e chiantu.
Supra la terra frisca,
supra la terra amara
abbucca e poi si susi.
Ma rosi e spini strazza,
senza sapiri dunni,
senza sapiri quannu,
senza sapiri comu
putia scansarli ancora.
Talia li rosi morti,
li spini nta la terra,
lu strascicu d’un trainu
appisu a lu distinu
mentri camina stancu.
Lu tempu pilligrinu
fa di lu ventu un chiantu.
* * *
Lo strascico
Il tempo come zingaro
trascina nel suo carro
risate e pianto.
Sopra la terra fresca,
sopra la terra amara
cade e poi si rialza.
Ma rose e spine strappa,
senza sapere dove,
senza sapere quando,
senza sapere come
poteva scansarle ancora.
Guarda le rose morte,
le spine nella terra,
lo strascico di un carro
appeso al destino
mentre cammina stanco.
Il tempo pellegrino
fa del vento un pianto.
* * *
Cadia na stizza d’acqua
Cadia na stizza d’acqua ad allammicu
davanti lu palluri di la luna.
Nta lu silenziu lu sicchiu pinnia
supra lu puzzu, allatu a li limuna,
stancu di li scinnuti e l’acchianati
talia ‘n celu, comu pi circari.
Gimia lu pernu e puru la catina
appisa all’arcu chi paria d’argentu.
Li chiuppa attintavanu sigreti
tistiannu a li discursa di lu ventu
chi spittinava rosi arraccicati
supra lu tettu vasciu di li casi.
Curcatu lu silenziu supra un ciuri
svigghiava na nuttata di suspiri,
svigghiava na nuttata di duluri
e larmi, persi mmezzu a tanti spini.
*
Cadeva una pioggerella
Cadeva una pioggerella a stillicidio
davanti al pallore della luna.
Nel silenzio il secchio pendeva
sopra il pozzo, accanto ai limoni,
stanco delle discese e delle salite
guarda al cielo, come per cercare.
Gemeva il perno e pure la catena
appesa all’arco che sembrava d’argento.
I pioppi ascoltavano segreti
ammiccando ai discorsi del vento
che spettinava rose abbarbicate
sopra il tetto basso delle case.
Coricato il silenzio sopra un fiore
svegliava una nottata di sospiri,
svegliava una nottata di dolore
e lacrime, perse in mezzo a tante spine.