Marfa Girl
di Larry Clark
con Adam Mediano, Kaylan Burnette
Una studentessa passa il tempo ad accoppiarsi con coetanei messicani
che la possiedono con amplessi poderosi. Un ragazzino in attesa della
prima volta con la ragazza che ama fa le prove generali con la sorella
del suo amico. La polizia di
frontiera lontana dal confine impiega il
tempo ad insidiare le ragazze ed a molestare i cittadini. Questo per
sommi capi è ciò che succede a Marfa, cittadina texana famosa per aver
ospitato il set de “Il gigante”, ed ora tornata alle cronache grazie a
Larry Clark che vi ha ambientato “Marfa Girl” il film con il quale si è
aggiudicato la settima edizione del festival di
Roma. Una scelta, che
ribalta le caratteristiche produttive del kolossal hollywoodiano
all’insegna di un
minimalismo che non riguarda solo un budget ridotto
all’essenziale, ma anche la storia, ispirata dal nulla esistenziale di
cui Marfa si fa promotrice con la rarefazione di un paesaggio che è
terra di confine con lo stato messicano. Una collocazione geografica che
è la metafora di un sogno americano ormai svanito, ed alla quale
Clarksi appoggia per aumentare il senso di sconfitta e di straniamento
messo in campo dalla macchina da presa. Il regista è bravo a
rappresentarle attraverso attori, tutti o quasi rigorosamente non
professionisti, chiamati a mischiare la finzione del film alle loro
esperienze personali. Se il risultato è garantito sotto il profilo della
spontaneità e dell’impatto emotivo, lo stesso non si può dire dal punto
di vista narrativo che appare frammentario e disunito per l’incapacità
di far convivere le istanze realistiche con la necessità di dare al
racconto una forma organica. In questo modo la storia arriva al suo
tragico finale, reiterando disfunzioni familiari che sono il detonatore
di pulsioni ora malate, nella figura del poliziotto psicotatico, ora
salvifiche, quando riguardano il sesso, un momento che nella concezione
del regista americano è sempre il terminale attorno a cui ruotano gli
avvenimenti dei suoi film. Tornato al cinema dopo lunga assenza, Larry
Clark cambia poco o nulla, continuando a mostrare una fenomenologia
della gioventù divisa tra passività e fornicazione. Un’ oscillazione che
la mdp privilegia soffermandosi su modelli di umanità efebica ed
ambigua. Senza lo scandalo delle prime opere ma anche di "Ken Park", il
cinema di Clark sembra ancora più inerte, ravvivato solo dalla bellezza
del corpo e dallo sguardo sull’ambiente, con il cielo a capofitto sulla
terra, ed i binari ferroviari a suggerire una voglia di fuga che rimane
interdetta dall’onnipresenza del cimitero e delle sue croci, simbolo di
un'esistenza destinata a consumarsi nell'inedia di quel luogo. Clark fa
di tutto per riprendere la vita così come viene, ma nel far questo si
perde troppo spesso in una contemplazione che non porta da nessuna
parte.