Donne che sentono troppo e si fermano come lapidi tra i vivi. Donne che si tirano via. Un nero corteo di carmelitane che seppelliscono una sorella all'alba in un cimitero di minuscole croci bianche, delicate come lavori all'uncinetto. E la luce opalina nella mensa al tramonto dove brillano solo le stoviglie di latta e i denti finti e il dolore del cuore di chi si è tolto dal mondo, e ride di niente, di una gallina, di un germoglio. Troie, scheletriche figure di rete nera, ragni dagli zigomi lividi e le bocche rosse, zampe che chiamano nel fosso. Seni nudi di un locale notturno. Bambine povere, tradite, schiacciate in faccia alle scarpe di un uomo, di un bracconiere. Donne che partoriscono in ogni fessura del mondo. Donne magre, moderne. Rapaci creature in un tailleur pantalone nella solitudine di un grande scrittoio, alle spalle grattacieli, vetrate di potere, e dentro il digiuno dell'anima. Donne cotonate, impiastricciate, appesantite di ricchezza. Donne che sanno sfruttare gli uomini, che sanno sfruttare tutto. Gazze ladre. Missionarie. Mani che si abbassano a carezzare nei sentieri di mosche, di putride bidonville, di bimbi morti che ancora ridono perché nessuno gli ha mai detto di smettere. Donne che spendono, indefesse sputtanatrici di denaro. Donne mutilate, bruciate, sfigurate dagli acidi. Ho visto una donna scempiata da un marito, ridotta a un cratere di carne viva che non può più chiudersi. Aveva un figlio in braccio che la guardava con amore. Dentro quella corteccia sfaldata, dentro quegli occhi incollati di membrane, lei resisteva per non mancare a quell'amore.
Donne leggendarie, stivali nel fango, mani che mungono nel gelo, donne che non sentono freddo, che non sentono rughe, donne che si vergognano di stare dentro una fotografia e ridono sghembe. Donne con i figli partoriti in guerra. Donne che apparecchiano e sparecchiano in una mutua continuità senza che nessuno se ne accorga, pavimenti lavati e pane e poi la morte come se niente fosse. Figlie coraggiose, figlie che si ribellano, che scappano di casa, che dormono nelle stazioni. Donne scordate, donne del disamore. Ho visto una drogata bella come un'attrice, giovane come una bambina, labbra grandi e braccia trafitte fino alle orecchie. Di chi sei figlia, amore mio? Chi ti ha venduto così in fretta? Perché non hai un banco di scuola e un parrucchiere che ti taglia i capelli? Ho visto una barbona spogliarsi e buttare i vestiti in un cassonetto, ho visto un sesso ispido e mammelle da madre attraversare le strade senza che nessuno si voltasse se non per ridere. Accanto tacchi borghesi, modesti languori cittadini, amanti, cancri, ristoranti. Uno stivale mi viene incontro, nero, appuntito, crudele. Lo stivale di una stronza o forse, chi lo sa, di una dilettante della vita, di una che ci prova a starci, a fingersi sincera. Donne interiormente modeste, donne dietro gli sportelli tracagnotte spazientite e maleducate, che fumano in faccia a colleghe più deboli, asmatiche. Donne belle davvero, invecchiate ma ancora generose.
Giovani sciocche, viziate e sguaiate, che si strusciano tra vetrine e ragazzi, che mangiano la pizza, che scopano con la cicca in bocca, che giocano a sembrare puttane. E invece povere puttane africane, culi come divani, scimmie scappate e chissà dove, a quale luce, a quale mare, a quale vita scalza, innocente, a quali fratelli, a quale sorriso bianco come la luna nella notte. Volontarie, ragazze che rinunciano alla noia, e si mettono accanto a un vecchio, a un malato terminale. E vanno al funerale con una rosa bianca e sussurrano: grazie. Amiche, amiche per la vita, le mie amiche. Velluto e acciaio nel mondo del mio cuore. Giù le mani da voi, vi difenderò qualunque cosa sia. Amiche nella fatica, nell'incertezza, amiche per crepare dal ridere, amiche la domenica con i bambini, amiche al mare con le cosce un pò grosse. Amiche nel capogiro di questa vita che sembra ferma e invece s'è già mossa troppo e tu sei lì che aspetti, e per fortuna c'è un'amica che ti viene incontro con la sua borsa e i suoi capelli. Amiche per un libro, per un fermaglio, per un uomo. Donne nelle auto, pensieri dentro gli specchietti. Donne dei semafori, mendicanti con in braccio creature sedate, perennemente dormienti. Madri assassine, e non mi va di parlarne. Sono tombe nella tomba del mondo. Ho visto una coniglia impazzita divorare i suoi piccoli, so cosa vuol dire. Perché a volte bisogna fermarsi, voltare le spalle e dire: io non voglio capire. Pregherò nel buio degli occhi chiusi, andrò indietro nella pancia del mondo e chiederò perdono a quel bimbo, e a quei conigli.
Donne del bisogno maschile, donne che sanno cucinare e stampare un bacio sulla fronte. Donne degli stilisti, anoressiche con stracci milionari e scarpe da guerra. Donne delle palestre, muscoli sotto la pelle di carta patinata di riviste femminili che ti guidano verso l'infelicità. E magari invece gli uomini ti vogliono come sei, ti vogliono come tu vuoi loro. Come bambini. Ci vogliamo per fare l'amore dolcemente quando il mondo spegne le sue fiamme, i giornalai chiudono, e la donna bella appesa alla copertina è carta che sventola nel buio. Eppure soffriamo tutte per questo corpo che ci abbandona zoppe. Soffrono le nostre figlie perfette, alte come i nostri sogni, bionde come i nostri angeli, soffrono di una bruttezza immaginaria, lottano con le illusioni, piangono buttate sui divani perché dicono che nessuno le ama, che nessuno le amerà mai. Ci chiniamo per consolarle mentre ci scacciano. Donne sterili. Donne che non sanno che farsene dei figli, li portano nei negozi di giocattoli e li riempiono di pupazzi di gomma. Donne che vivono al cimitero sulle tombe dei loro figli, si portano sedie, stracci per pulire, conversano con la fotografia. Ne ho vista una con lo stereo, canticchiava appresso al rapper preferito dal figlio. I cimiteri fanno bene alla vita, volevo dirlo a quelle stronze del parco, quelle sempre incarognite, con il passeggino all'ultimo grido, quelle sempre al cellulare, sempre annoiate. Madri carcerate, bimbi dentro l'ora d'aria. Donne negli istituti, donne sghembe che chiedono solo di dormire, donne tonte, menomate, e forse non così infelici. A voi un bacio grande sul vostro stupore, a voi l'ala di un angelo, voi che custodite lo spicchio goffo di ognuna di noi. Qualcosa ancora, un regalo.
Mia madre, il taglio per farmi entrare nel mondo. Il suo cuore sempre nel sole, le piccole vene che percorrono i suoi occhi azzurri come i suoi quadri, come il ritratto che mi ha fatto: una faccia imbronciata, una mano sulla tempia, e due occhi affossati in un'emblematica fatica. Le mie figlie due cosine piccole sedute dentro di me come imperatrici, come caramelle. Una volta ho visto una bambina strana nella hall di un albergo. Una bambina grassottella con un vestitino che le tirava davanti, e una faccia da lontra, da vecchietta. Una di quelle bambine sapienti. Due occhi un pò fuori e una borsetta di pelle, una bambina simile a una nana con una testa appena un pò troppo grande. Una bambina con qualcosa di speciale. Uno sguardo sfondato e dietro ci vedevi il diluvio universale, o l'inizio del mondo. Una bambina che sicuramente sapeva qualcosa che io ignoravo, avrei voluto prenderla per mano e dirle: raccontami cosa sai. Non l'ho fatto, sono rimasta a guardarla. La gambe grassottelle nei calzini di rete bianca, se n'è andata così com'era apparsa, dal niente, come tutto. Da uno specchio, da una superficie che si muove e poi si ferma, e poi si muove di una nuova forma.
di Margaret Mazzantini Flair/Febbraio 2003 (da http://www.margaretmazzantini.com/)