Sto per concludere il mio stage, quello grazie al quale dal lunedì al venerdì mi trovate chiusa in un ufficio pubblico non particolarmente illuminato.
Nel corso degli ultimi mesi ho contemplato con ossessività il momento che dietro l'angolo mi attende; l'acquisizione dello status di disoccupata. Parte delle preoccupazioni e delle ansie che mi abitato sono quelle che mi hanno indotta a valutare diverse volte il sotterramento di questo blog, qualsiasi cosa quest'espressione significhi.
Sapevo che alcuni dei miei potenziali datori di lavoro sarebbero arrivati qui e avrebbero letto quello che scrivo quando sto male e non trovo altre valvole di sfogo oltre la scrittura. Così è stato.
Non ho particolarmente paura dei colloqui di lavoro, in parte perché ho ancora un po' di margine di manovra. Non sono del tutto disperata. Materialmente, posso permettermi qualche altro fallimento. Inoltre, nel corso della mia esistenza, ho fatto già diverse cose che - stando all'immaginario collettivo - potrebbero indurre forti attacchi di panico, e ne sono uscita viva. Questo mi conforta nei momenti di disorientamento, quando mi trovo in mezzo a pianure allagate a centocinquanta chilometri da quella che non è più la mia casa, o in bilico su uno sgabello nel centro storico di una città che ho frequentato per tre anni senza mai arrivare a conoscerla veramente.
Eppure ho trovato dolorosissimo constatare che ero nuda davanti a chi aveva il compito di valutarmi. E mi sono sentita stupida, mentre contemplavo il formarsi di quell'emozione. Ho pensato: "Sarebbe bastato così poco per evitarlo."
Mi osservo compiere continui e rapidi aggiustamenti al disegno che ritrae il mio lavoro ideale, ciò che ritengo accettabile e inaccettabile fare, i luoghi dove credo di poter vivere senza farmi uggiosa, lo stipendio minimo contemplabile.
Sono aggiustamenti che devono essere fatti, se voglio evitare di tornare a vivere dai miei nella completa miseria emotiva. E li sto facendo. Mi sto scrutinando, mentre metto da parte le immagini che avevo di me stessa da grande - o almeno ci provo - detestando al contempo chiunque mi abbia illusa di poter cavare qualcosa dall'accumularsi sempiterno di stoffe nella mia camera
le stoffe appese agli infissi
le stoffe che schermano la luce del sole
le stoffe date dalla tessitura di oscurità intercostali e parole soppesate per mesi/adottate nel panico
I continui aggiustamenti logorano ossa come le mie. Ho bisogno di tempo per adattarmi alle situazioni nuove. Non dovrei scriverlo, perché poi qualche potenziale di lavoro potrebbe leggerlo e scambiarmi per una persona poco flessibile. Però so anche che la mia lentezza è necessaria, umana e che può portare a qualcosa di buono. In genere è così.
Quando scrivo che sto male non provo alcuna vergogna, se penso a chi mi legge da lontano. Tento però invano di nascondermi ad alcune coppie d'occhi, perché da vicino sono più portata a fingere che tutto sia ok.
Sempre più spesso mi chiedo se abbia senso nascondere davvero questo blog e alcuni dei miei scritti destinati ad altri spazi, ad esempio scegliendo la via dell'anonimato. Ci ho pensato tante volte, ma l'idea mi fa troppo schifo, mi mette la nausea, mi rende apatica.
Di tutte le cose che sento di poter sacrificare, la mia firma non è una di queste. Una voce interiore ripete quello che ho sentito da altri, ovvero che si tratta di un istinto egoista ed egocentrico. Ma io so come sono fatta. So che, fino ad un certo punto, mi reggo sulle parole, sul loro scorrere spargendo immagini. Ho bisogno di sapere con la mia lingua toccherò alcuni dei corpi di chi mi vorrà leggere, e ho bisogno di sapere che le immagini evocate siano legate a me, al mio nome.
Non ho mai scritto un diario anonimo. Non ho mai tenuto un diario che non fosse online, accessibile a chiunque. Ho sempre cercato questo tipo di contatto. Non esistevo davvero prima di cominciare a lasciare tracce di me su internet, o almeno così sono portata ad immaginare. Quindi ora credo che anonimizzarmi equivarrebbe a privarmi di una delle poche cose che mi ricordano che ha senso che mi conservi in vita, perché sono abitata da potenzialità, perché ci sono cose che so fare bene, perché a volte le persone mi ringraziano per quello che scrivo (e allora mi pare che ne sia valsa la pena).