Le poetesse d’Italia MARGHERITA GUIDACCI 1921 – 1992
Firenze 25 aprile 1921 – Roma 19 giugno 1992.
Ho messo la mia anima fra le tue mani.
Curvale a nido. Essa non vuole altro
che riposare in te.
Ma schiudile se un giorno
la sentirai fuggire. Fa’ che siano
allora come foglie e come vento,
assecondando il suo volo.
E sappi che l’affetto nell’addio
non è minore che nell’incontro. Rimane
uguale e sarà eterno. Ma diverse
sono talvolta le vie da percorrere
in obbedienza al destino.
(All’ipotetico lettore)
In vita ha pubblicato sedici libri di poesia e fu tradotta all’estero in varie lingue. L’ultima silloge, Anelli del tempo, consegnata nelle mani dell’amico fraterno padre Massimiliano Rosito qualche mese prima del decesso, apparve nei tipi di «Città di Vita» nel primo anniversario della morte. Appartenente alla raccolta postuma, “All’ipotetico lettore” rappresenta per molti aspetti il testamento spirituale di Margherita
Tutta la poesia, infatti, non è che il diario di un’anima, confessione trasparente di un percorso spirituale che non nasconde nulla dell’esperienza della vita, tanto meno le verità più amare, la sofferenza e il dolore, al punto che Mario Luzi, nel tentativo di rievocare il momento del primo incontro, associava la sua figura a «un’impressione di luce festosa, una letizia mentale, accompagnata però da un senso luttuoso. Qualcosa che non potrei definire altrimenti che con questa parola la quale sembra molto grave, insomma la segnava. Segnava delle ombre in lei e segnava nel profondo chi ascoltava»;
«Avevo conosciuto prima lo sfiorire che il fiorire – scrive di sé Margherita Guidacci -, avevo veduto prima come si muore che come si vive, e nella vita ero entrata, per così dire, a ritroso, senza poter staccare lo sguardo dal termine che ci attende sulla terra, il disfacimento della carne».
Con queste parole la scrittrice trentasettenne introduce, in un articolo per il quotidiano «Il popolo», l’incontro con Clemente Rebora, intitolato, del resto, «La morte come vita».
Sia da parte materna che paterna la famiglia era originaria di Scarperia, dove possedeva un’antica casa d’epoca medicea. Il padre, Antonio Leone Guidacci, noto avvocato nel foro fiorentino, si ammalò di cancro e scomparve prematuramente nel 1931. Figlia unica, Margherita crebbe con la madre Leonella Cartacci e la nonna materna Maria Savi. Timida e introversa, a disagio al confronto con i bambini della sua età, furono i libri la più assidua compagnia dell’infanzia. E a conferma che la poesia è visita e dono, già dai primi anni affiorano i segni di una chiamata, in obbedienza al destino: «La mia tematica è probabilmente legata ad uno dei primi ricordi della mia vita. Avevo quattro anni e mezzo: (…) alla fine del 1925, dopo Natale ed ancora nell’atmosfera di Natale. Mia nonna era seduta in una grande poltrona vicina al caminetto; ed io sedevo ai suoi piedi, su un panchettino imbottito, appoggiando la schiena contro le sue gonne. A un tratto, non so come né perché, parve che le frontiere del mio mondo infantile – fino allora eterno, incomunicabile ed immutabile, di fronte al mondo anch’esso eterno, incomunicabile ed immutabile degli adulti – cadessero polverizzate. Sentii allora, con una violenza che mi fece paura, la continuità fra mia nonna e me, l’unicità della corrente – sangue e tempo – che ci attraversava. Lei era stata come me ed io sarei stata un giorno come lei. I nostri mondi non erano divisi….”
Nicola Lisi era cugino della madre, frequentava regolarmente la casa, e la iniziò alla poesia contemporanea a partire da Montale. Margherita Guidacci aveva diciotto anni. A quel periodo (1939) risale Canto di prigionieri polacchi, scritto «quando la Polonia, dopo una breve disperata resistenza era caduta sotto il duplice maglio della Germania di Hitler e della Russia di Stalin.” Amante dello studio, dotata e sinceramente interessata a ogni ambito del sapere, tanto nelle discipline umanistiche quanto in quelle scientifiche, anche per l’innata esigenza di nitore e chiarezza la scelta della facoltà universitaria non fu senza esitazioni: «Arrivai alla facoltà di Lettere dopo un duro combattimento con me stessa. Amavo la letteratura, ma amavo immensamente anche la matematica e, presa la maturità, non sapevo decidermi fra questi due amori».
Fu ancora Nicola Lisi a introdurla nell’inverno 1942 nella biblioteca di Giovanni Papini: Margherita Guidacci stava preparando la tesi di laurea con Giuseppe De Robertis sul tema dell’innocenza in Ungaretti.
All’età di diciannove anni si accorse di possedere la facoltà della rabdomanzia, un impulso vitale di forza prorompente che scomparve col matrimonio, rimanendo indelebile, tuttavia, nella memoria perché appartenente alle profondità insondabili dei misteri della vita, come un’energia cosmica che visita l’uomo secondo modalità inesplicabili; e pubblicò ripetutamente le sue memorie di rabdomante.
Durante la guerra si innamorò di un soldato dell’esercito degli alleati che le fece dono di una raccolta antologica di Emily Dickinson. Così prese avvio il lungo esercizio di traduzione sull’opera della Dickinson, con una prima pubblicazione di soli venticinque componimenti (Poesie, Cya 1947), una successiva, notevole per la qualità e la mole, di Poesie e lettere (Sansoni 1961, poi Bompiani 1993), una scelta più ridotta di sole Poesie (Rizzoli 1979), sino alla collaborazione al volume di Tutte le poesie di Emily Dickinson a cura di Marisa Bulgheroni (Mondadori 1997) uscito dopo la sua morte.
La Guidacci tradusse moltissimo, anche da lingue non conosciute per il tramite di altri traduttori, ad esempio dal polacco – tradusse le poesie di Karol Wojtyla – o dal cinese. Studiosa di anglistica e americanistica, fu probabilmente la prima in Italia a tradurre i Four Quartes di Eliot: le prime traduzioni escono già dal gennaio 1946. Nello stesso anno traduce e pubblica i Sermoni di John Donne. ; l’approccio con la letteratura giapponese porta la Guidacci a comporre una breve misura (1988), una sorta di corrispondente italiano dello haiku giapponese, composizione di particolare brevità e incisività.
Poetessa di grande immediatezza e spontaneità (osava dire: «La mia poesia è il frutto di poche intense giornate… lo sbocco di una tensione psicologica»), la Guidacci rifugge dall’idea della poesia come “letteratura” o puro artificio, conquista uno spazio di schietta comunicazione, al di là della parola “condotta in parata”, e riveste d’ispirazione cristiana e d’accenti profondamente sentiti, un modo di poetare discorsivo, secco, colloquiale, di rigenerazione. Allo stesso modo non ama la poesia simbolista, né lo stesso Ungaretti; predilige la poesia con una forma ben definita, dal verso lungo e si tiene sempre ai margini del mondo intellettuale del tempo, avendo percepito, una per tutte, le sue risonanze, le vie sotterranee del suo percorso.
«Il tempo dell’anima è l’eternità». «Non so attribuire alla vicinanza nel tempo – scriveva nel 1945 – più valore che alla vicinanza nello spazio: vale a dire, un valore quasi nullo. Ne desumiamo solo degli elementi molto esteriori, delle convenzioni superficiali che non incidono il vivo dell’anima.
(…….) I miei veri contemporanei sono quelli che appartengono alla mia medesima linea spirituale, sia che essa si ramifichi nel presente, sia che affondi verticalmente nel passato e nell’avvenire…..”
Pubblicò nel 1946 la prima raccolta di poesia La sabbia e l’Angelo (Vallecchi). Si sposò nel 1949 con il sociologo sardo Luca Pinna, dal quale ebbe tre figli. Nel 1959 lasciò definitivamente Firenze e si trasferì a Roma. Insegnò Lingua e Letteratura inglese e americana presso Licei, quindi presso l’Università di Macerata e l’Istituto Universitario di Magistero “Maria SS. Assunta”. Collaborò con numerose riviste – tra le quali si ricorda «Città di Vita» non solo per le traduzioni di autori spesso ancora sconosciuti in Italia, ma anche perché vi pubblicò poesia propria – , periodici e quotidiani (come «Il Popolo», «Giornale di Brescia», «L’Osservatore Romano»).
Morte del ricco è un oratorio che prende le mosse dalla parabola evangelica del ricco Epulone.
È ricostruita come emblema e storia del potere: la perdizione di Epulone e la povertà e la liberazione di Lazzaro sono espresse in una rappresentazione scenica che vede, tra gli altri, l’amante di Epulone, i figli di Lazzaro, i servi di Epulone, un poeta… «Sotto il profilo allegorico», bene osserva Raffaele Crovi, «”Morte del ricco” cerca di individuare la verità profetica del cristianesimo: Epulone, eroe dell’estremismo realista-storicista, maschera dell’alienazione della civiltà del benessere, rappresenta il rifiuto della conoscenza del Mistero, la storia che rifiuta il riscatto, l’ideologia che rifiuta il miracolo. Nella sua magistrale e corporale visionarietà “Morte del ricco” anticipa e supera, per qualità di concentrazione e allusività, la drammaturgia in versi di P.P. Pasolini».
Tuttavia facendo riferimento ai libri ai quali sentiva d’essere rimasta più legata, Margherita Guidacci sintetizzò, della propria poesia, tre momenti: quello che si esprimeva ne “La sabbia e l’Angelo” «che cercava soprattutto una comunione con i morti. Avevo il senso che la poesia fosse la sola cosa che poteva, in qualche modo, mettere ancora in comunicazione i due mondi». «Il secondo periodo ebbe inizio traumaticamente, circa dieci anni dopo, con Neurosuite. Fu un libro che io scrissi nel ’68/’69 e fu pubblicato nel ’70. In esso parlavo di un’esperienza di clinica neurologica…”
Dopo un cammino incerto (Cahiers d’Origine 1970) e Neurosuite (Neri Pozza 1970) anche le raccolte successive Il vuoto e le forme (Rebellato1977), Terra senza orologi (Edizioni 32, 1973), l’Altare di Isenheim («Città di Vita» 1978, poi Rusconi 1980), attestano la sofferenza di questa fase “cupa” della vita, di profondo travaglio in senso psichico e spirituale. Ma in realtà a Margherita Guidacci capitò poi qualcosa di straordinario, perché dopo l’esperienza reiterata del lutto (rimasta vedova nel 1977 , due anni dopo le veniva a mancare anche la madre) le accadde di reincontrare, per caso, quel grande amore giovanile che aveva creduto morto e che tuttavia non aveva mai dimenticato. Fu questo incontro a segnare la svolta che sfociò nell’Inno alla gioia (Nardini 1983) perché l’incontro assunse per lei a tutti gli effetti il significato di una resurrezione; “Inno alla Gioia” è una raccolta per la quale qualunque altro titolo sarebbe stato inadeguato; infatti afferma che nonostante «la deplorevole mancanza d’originalità e il formidabile precedente della combinazione Schiller-Beethoven», il titolo «era l’unico perfettamente aderente al contenuto del mio libro: tanto che, se non fosse esistito, ritengo che sarei stata capace d’inventarlo».
Dunque veramente, non solo la vita, ma anche la testimonianza, che la poesia rende, mostra uno svolgimento opposto a un percorso ordinario: nel dettato sincero della sua poesia si percepisce il senso di un destino che ha qualcosa di assolutamente unico, certamente di straordinario, per cui tutto il percorso di una vita, nella fedeltà all’amore e per il significato che l’amore nella vita riveste, assume un valore conoscitivo di spessore filosofico-teologico sino all’ultima silloge pubblicata in vita Il buio e lo splendore (Garzanti, 1989).
La poetessa aveva la certezza di essere stata eletta alla poesia, ad essa chiamata, come già ebbe una specie di rivelazione fin dall’infanzia. Ed essa può affermare: “ Poiché secondo mia natura io cercai la bellezza, ma Dio, Dio mi ha inviato nel mare a cercare perle” Dice la Del Serra che è una certezza catartica, fiera e dolorosamente gioiosa, che anima anche le altre due tappe creative, fra loro antitetiche, dei tormentati anni ’70 della Guidacci: da un lato la confidente rinascita nel segno della creatura incorrotta e vittoriosa, cantata nei suoi quattro elementi, e inscindibilmente unita alle voci amiche dei pittori e dei poeti conosciuti nei suoi viaggi ,…, dall’altro lato le grigie , le aguzze, autunnali geometrie esorcistiche de “Il vuoto e le Forme” dove scopriamo un paesaggio carsico primordiale e obliante. Forse proprio per questo dualismo, questa irrequietezza che la conduce poi alla pace , sintetizza nel caso di Margherita Guidacci la formula, a volte abusata, di “letteratura come vita” dove la letteratura exempla compiutamente un destino che prevede qualcosa di eccezionale, forse di unico tra i poeti
Questo breve profilo tiene conto del saggio di Anna Maria Tamburini, pubblicato sulla rivista “Campi Immaginabili” n°38/39 del 2009 dal titolo:” Amore e conoscenza. Forme di scrittura del sacro: Margherita Guidacci e A. Venanzio Reali sulla scia di Emily Dickinson” e on line In Purissimo Azzurro, di quello di Vincenzo Arnone in “Vita Pastorale” n° 7 dal titolo:” L’impulso del volo nell’inesprimibile” , 2002 e del lavoro critico di Maura del Serra nella cura della raccolta completa delle opere delle Guidacci, comprese quelle rimaste inedite, prefate da un attento esame critico. Le poesie sono tratte dalla raccolta della Del Serra, Margherita Guidacci, Le poesie, Le lettere, 2003 ( ristampa)
OPERE
La sabbia e l’Angelo – Vallecchi 1946
Morte del ricco,( oratorio) Vallecchi 1954
Paglia e polvere , Rebellato, 1961
Un cammino incerto, Luxembourg, Origine, 1970
Nerosuite, Neri Pozza , 1971
Taccuino slavo, La locusta 8 Vicenza) 1976
Il vuoto e le forme , Rebellato, 1977
L’altare di Isenheim, Rusconi, 1980
L’orologio di Bologna, Città di Vita, 1981
Inno alla Gioia, Nardini , 1983
La Via Crucis dell’Umanità, Città di Vita, 1984
Poesie per i poeti , edizioni IPL 1987
Una breve misura ( haiku) , Vecchio Faggio editore, 1988
Il buio e lo splendore, Garzanti, 1989
Anelli del Tempo, escono postumi presso Città di Vita, 1993
Numerosissime sono le sue traduzione : di Emily Dickinson, di John Donne, di T. Eliot. di W. Blake, Meunier, Tu Fu, Conrad, Twain, Tao Huang Ming, Carol Wojtyla, ……
POESIE
Da La sabbia e l’angelo
XVI
Se tu mai sentissi la notte nei tuoi polsi tremare,
E trafiggerti con gli aghi del sangue,
E i minuti del cuore sconvolgerti in improvvise frane,
Allora nemmeno comprenderai
che sia , di terra farsi poi nardo e neve,
Ed entrare in un tempo incorruttibile.
XXVII
Ama l’albero in sé raccolto, ama la chiusa fatica
Del frutto che il tempo nutre e che nel tempo ricade.
Ma più ama l’albero nel vento, quando assomiglia alla fiamma futura.
Da Una breve misura
Anche sul fango Lieto risveglio
il sole resta sole d’ali e canti: ogni uccello
e non s’infanga conosce la sua alba
Quando è accaduto il peggio Quando è accaduto il peggio si forma un grande silenzio come un lago immobile su una città sommersa. Son più reali le nuvole delle case che prima abitavamo. Ci affacciamo curiosi e indifferenti come posteri. sulla rovina che più non è tale per noi, se soverchiandosi ha travolto la nostra conoscenza, Che sollievo sentire che nulla ormai ci riguarda! |
Da Nerosuite
Clinica neurologica
Qui giunto molte cose o pellegrino
puoi domandarti ma una sola importa:
E’ l’ultima casa dei vivi
o la prima dei morti?
Da Morte del ricco Una voce ( dalla casa di Epulone) Il vento che odora di morte mi ha passato sul viso la sua viscida mano. Ha toccato i viticci marciti, I muri sbavati di lumache, Lo zolfo e il muschio giallo tra le scaglie di pietra, I bassi scogli rivomitati dalla marea Quando la notte emerge dalle acque Come il dorso di un pesce immenso. Quale stagione viene ad annunciarmi? Il mio cuore l’ignora, Pure ne trema. |
Da Il Vuoto e le Forme
Il verde volto
Il verde volto che tenta Sono il mio stesso volto
di formarsi nel fogliame, o il volto di un nemico?
il volto grigio del vento, Ambigue labbra si schiudono,
il volto glauco dell’acqua, occhi incompiuti mi fissano,
io temo di vederli completare
chiedono a me uno specchio ed ancora più temo
e subito s’infrangono che interamente spariscono.
mentre , lembo a lembo.
si compongono e si sfanno.
Da Inno alla Gioia
Dal dolore alla gioia
«Il dolore
era piombo e pietra e mi chiudeva in me stessa .
Ogni giorno in una nuova cerchia di mura ,
un nuovo giro di catene.
Ma la gioia
mi dilata ora dal centro del cuore
fino agli orli vibranti del mio essere-
leggera come un fiore che apre i suoi petali al mattino …
No, più leggera. Io sono spazio e luce ,
Sono il crocevia di liberi venti
Siamo noi che abitiamo l’amore.
Non è l’amore ad abitarci, siamo noi che abitiamo l’amore.
Come potremmo contenerlo? Esso invece ci contiene
nel suo grande regno. Come fanciulli vaghiamo
nelle sale dei suoi meravigliosi palazzi,
scoprendo ad ogni passo nuovi tesori,
od usciamo nei suoi profumati giardini
così splendenti nel sole, così teneri nella brezza notturna,
e nei suoi campi pieni di frutti che non ci è mai negato di cogliere.
Ci spingiamo anche più lontano, fino ai lidi carezzati dal mare:
i suoi confini, e tuttavia non veramente confini,
perché udiamo in ogni onda una voce che ci reca un messaggio
d’altre sponde, che sono anch’esse tutti regni d’amore.
Da Anelli del tempo
Distacco
Stella cadente Alcuni desideri si adempiranno. Altri saranno respinti. Ma io sarò passata splendendo per un attimo. Anche se nessuno mi avesse guardata risulterebbe ugualmente giustificato- per quel lucente attimi- il mio esistere. |
Non si spegne l’amore, mi spengo io.
Tu sai bene che il sole non si spegne
anche se più non scalda i morti.
In quest’ombra che m’inghiottisce, non riesco
ormai a toccarti, né corpo né anima,
e neppure a cercarti. La tua voce
troppo lontana ( come il vento sulle tombe
per chi giace là sotto) non può orientarmi.
Sono più forti l’altrove , il silenzio.
Da Poesie disperse
Un Cono d’ombra
Ogni giorno una nuova pietra
Muriamo nella barriera che ci divide.
E poi ci trasciniamo scoraggiati
Ciascuno dalla sua parte, sbattiamo nell’ostacolo,
Gemendo : “ Non vi fosse
Questo pesante muro!”
Pure ogni giorno, con le nostre mani
Noi aggiungiamo un’altra pietra.
Luce ed ombra.
Io non seppi mai volgermi alla vita
con tutta l’anima. Anche gli istanti
Più intensi
Troppo mi corteggiava
La morte.
E ciò rese più forte la luce
Rese ancora più oscura l’ombra.