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Qualche settimana fa mi era capitato di guardare C’è posta per te. Non il film con
Meg Ryan e Tom Hanks, che già ci sarebbe un pochino di che vergognarsi, mi riferisco proprio al programma con
Maria de Filippi.
AAAHAHAHAH RISATE
Premetto che non l’ho visto di mia spontanea volontà. Non ero a casa mia e mi hanno costretto legandomi a una sedia. Tralasciando i dettagli da splatter-revenge movie di come sia finito a vederlo, a C'è posta per te c’era ospite
Gabriel Garko – ovvio – ed era lì per presentare una delle mille fiction che interpreta a raffica manco fosse l’unico attore in Italia, e tra l'altro non ho ben capito cosa avesse a che fare Garko con la storia di turno. Storia di turno che raccontava di una tragedia con nonne malate terminali poi miracolosamente guarite e poi di nuovo malate terminali e a un certo punto mi sono perso perché era tutto troppo complesso per la mia debole mente.
La gente che guarda regolarmente questo tipo di programmi riesce a seguire tutti i passaggi di una vicenda così incasinata e poi se gli presenti davanti un film di Lynch o Kubrick o Malick non lo capisce. Cazzo, ma se riuscite a seguire ‘ste intricatissime storie dovreste minimo riuscire a conseguire una laurea al MIT a occhi chiusi e poi non riuscite a capire un film di Kubrick. Davvero strano il mondo...
Nella prima vicenda della puntata c’era in pratica questa fiabetta sulla nipote e la nonna, con la nipote che aveva 30 anni e passa ma veniva trattata come una bimba di 6 circondata dai pupazzi quando lei avrebbe preferito essere circondata da un’altra cosa che fa rima con pupazzi. Nipote e nonna che si vogliono tanto tanto bene e non potrebbero vivere l’una senza altra, anche se io vorrei vedere poi dietro le quinte ciò che è successo per davvero. Secondo me la nipote ha campato la cara nonnina in fin di vita giù dalle scale ed è andata in bagno a farsi una sveltina e una striscia di coca con Garko, ma queste sono solo mie supposizioni.
Nella seconda vicenda di questa bellissima e appassionantissima puntata di C’è posta per te c’è stato posto per un melodrammone ancora più strappalacrime. La storia di un uomo che doveva essere talmente un pezzo di pane che tutte le sue mogli a un certo punto sono scappate via senza dirgli dove andavano, chissà perché? Una di queste numerose mogli ha portato via con sé anche il figlio, e l’uomo per decenni se n’è fregato di cercarlo. Fino a che un giorno, malato terminale in fin di vita – ovvio – ha scoperto l’esistenza del programma di Maria de Filippi e ha deciso di contattarli per rintracciare il figlio perduto, senza dover manco pagare un detective privato. Così Santa Maria, insieme ai suoi piccoli aiutanti, ha ritrovato il bambino, trasferitosi negli USA, scoprendo che oramai è diventato un omaccione italoamericano che sembra uscito dai Soprano. Alla fine, padre e figlio carramba! che sorpresa si sono ritrovati per la prima volta insieme, tra gli applausi e le lacrime del pubblico.
Perché diavolo vi ho raccontato tutto ciò?
Innanzitutto per rendervi complici di questa mia esperienza traumatica e farvi soffrire un po' quanto ho sofferto io, e poi perché la visione di Philomena mi ha riportato alla mente tutto ciò.
Philomena
(UK, USA, Francia 2013)
Regia: Stephen Frears
Sceneggiatura: Steve Coogan, Jeff Pope
Ispirato al libro: The
Lost Child of Philomena Lee di Martin Sixsmith
Cast: Judi Dench, Steve Coogan, Mare Winningham, Sophie Kennedy Clark, Barbara Jefford, Anna Maxwell Martin, Michelle Fairley
Genere: tv cinema del dolore
Se ti piace guarda anche: Una canzone per Marion, Saving Mr. Banks, Parto con mamma, Nebraska
La storia raccontata dal film, ispirata a un fatto realmente successo raccontato non da Maria de Filippi bensì da Martin Sixsmith nel suo bestseller The Lost Child of Philomena Lee, è abbastanza simile a quest’ultima. Una donna irlandese mega bigotta ha avuto un figlio da giovanissima e il bimbo è stato affidato a un convento di suore malefiche che l’hanno vendut… pardon dato in adozione negli
Stati Uniti. 50 lunghi anni dopo la donna, Philomena, una Judi Dench che a me non è sembrata per nulla da Oscar, vuole ritrovarlo e in suo soccorso arriva un giornalista che fino ad allora non si era mai occupato di questo genere di storie di vita vissuta perché, ve lo dico con le sue parole:
“
Storie di vita vissuta è un eufemismo per articoli su persone stupide, vulnerabili e ignoranti con cui riempire giornali letti da persone ignoranti, stupide e vulnerabili.”
"Scommetto che ti stai annoiando, ammettilo..."
"Andare in giro per cimiteri con una vecchia bigotta scassapalle?
E perché mai dovrei annoiarmi?"
Lo dice nel film Martin Sixsmith, interpretato da uno
Steve Coogan così così, mica io.
Si può raccontare una storia di questo tipo senza (s)cadere nel facile pietismo alla Maria de Filippi?
Sì, si può, un film come
Quasi amici è la dimostrazione che si possono toccare certi argomenti delicati in una maniera ironica e priva dei soliti stereotipi. La domanda più importante per quanto riguarda questo post invece è: Philomena ci riesce?
Secondo la critica mondiale, secondo l’Academy che l’ha nominato addirittura tra i migliori film dell’anno, e secondo gran parte degli amici blogger di cui ho letto pareri per lo più entusiastici sì. Un gigantesco sì.
Per quanto mi riguarda invece è un gigantesco mah, tendente al no.
Philomena non gioca troppo le armi della lacrima facile, di questo gliene do’ atto. È un film che io ho trovato anzi molto freddo. Pure troppo. Sarà che ho provato un’antipatia istintiva e viscerale nei confronti di questa Philomena. Non ci posso fare niente. A parte qualche accennato momento di apertura mentale, bigotta era all’inizio del film, bigotta rimane fino alla fine. E pure appassionata di libri stile Harmony. Ho provato invece una forte empatia nei confronti di Martin Sixsmith, nonostante per l’attore che lo interpreta, Steve Coogan, abbia sempre provato un’antipatia istintiva e viscerale, non so bene perché, non chiedetemelo. Il suo personaggio è quello di un giornalista ateo che odia le “storie di vita vissuta” alla Maria de Filippi. Martin e Philomena sono quindi due persone del tutto differenti che si trovano a dover viaggiare insieme, lui per raccontare a modo suo un tipo di vicenda che tanto non sopporta e lei per scoprire che fine ha fatto suo figlio. Tra i due si instaura un rapporto quasi genitoriale già visto in un sacco di altri film, dagli
on the road recenti stile
Nebraska e
Parto con mamma fino, tornando più indietro nel tempo, a pellicole come In viaggio con papà o Dutch è molto meglio di papà.
"Questo Cannibal sarà anche quello che noi giornalisti seri chiamiamo un
blogger da strapazzo, però su di te Philomena non ha mica tutti i torti..."
Cos’ha questo Philomena in più rispetto alle decine, forse centinaia di film simili, in grado di portarlo a correre per gli Oscar?
Ditemelo voi, io non l’ho capito. Ho apprezzato la critica alle suore e al convento, sebbene fatta con il freno a mano sempre inserito da Philomena. Per il resto i due protagonisti non mi hanno certo sconvolto, le musiche di Alexandre Desplat sono belle ma regalano una patina favolistica eccessiva a questa storia vera, ci sono due o tre momenti divertenti ma niente di così clamoroso rispetto ai soliti standard britannici, la regia di Stephen Frears mi è parsa di un piatto totale e, soprattutto, la parte drammatica non l’ho trovata così emozionante.
Un drammone strappalacrime ti deve far commuovere, come ad esempio il recente sottovalutato
Una canzone per Marion, se invece non ci riesce vuol dire che con te ha fallito. Come un horror che non fa paura. Il problema comunque con buona probabilità non è tanto del film quanto mio, visto che il resto del mondo pare aver adorato Philomena. Sarò una persona cattiva io, ma a me è sembrata giusto una storia alla Maria de Filippi, realizzata in maniera professionale e curata e tutto e con dentro un paio di riflessioni non male sulla religione e pure sul giornalismo, però pur sempre una storia – Dio mio! – alla Maria de Filippi.
(voto 5,5/10)