Maria Grazia Siliato: gli Eroi di Famagosta

Creato il 07 aprile 2015 da Dietrolequinte @DlqMagazine

In uno dei miei giri tra le bancarelle dei libri usati mi sono imbattuto, casualmente, in un romanzo storico, edito da Mondadori, ma attualmente fuori commercio e praticamente introvabile: L'assedio (1995) di Maria Grazia Siliato. Un volume che consiglio, senza remore, a tutti gli amanti del genere e a chi voglia sapere qualcosa in più sull'epoca delle Repubbliche marinare e delle lotte contro l'Impero ottomano.

Maria Grazia Siliato è una storica ed archeologa nata a Genova, ma di nazionalità svizzera. Grande studiosa di culture dell'Oriente Mediterraneo, ha compiuto numerosi viaggi di ricerca (Cipro, Turchia, Israele, Egitto), che le hanno permesso di raccogliere tantissimo materiale poi utilizzato nelle sue pubblicazioni. Tra i suoi romanzi possiamo ricordare Caligula (Mondadori, 2005), Masada (Rizzoli, 2007) e il recentissimo Il sangue di Lepanto (Rizzoli, 2015).

Siamo a Cipro, nel 1571, più precisamente a Famagosta, dove, da quasi un anno, ingenti truppe ottomane (si parla di oltre duecentomila uomini) cingono d'assedio la città protetta, all'inizio delle ostilità, da settemila soldati della "Serenissima". La difesa della città-fortezza è affidata al prefetto civile, il veneziano Marcantonio Bragadin, e al capitano di ventura, il perugino Astorre Baglioni, ingegnere militare e comandante delle truppe cittadine.

Quella di Famagosta fu una delle pagine più epiche mai scritte dalle armi italiche, inequivocabile dimostrazione della falsità con cui sempre si è dipinto l'italiano ingiustamente ritenuto pavido, incapace di combattere ed inetto: i difensori della fortezza tennero testa ad un esercito nemico immenso, facendo pagare alla "Sublime Porta" un prezzo sproporzionato per una vittoria amara. Ma la loro sorte fu terribile, indicibile addirittura quella di Bragadin.

Da questo scenario l'autrice prende le mosse per realizzare un romanzo in cui il generale ed il particolare, l'oggettivo e l'intimo, si fondono perfettamente e così, su due piani distinti, ma strettamente connessi, si consuma la tragedia collettiva e quella dei singoli; chiaro è l'assunto della Siliato: arriva sempre per ognuno di noi il momento in cui si è chiamati a rendere prova del proprio essere e delle responsabilità verso sé stessi e gli altri. Ci colpisce la precisione della documentazione che ci permette di entrare a Famagosta, sentendo quasi il profumo del mare e della vegetazione, ma anche, e, soprattutto, di respirare, fin quasi a soffocare, l'atmosfera cupa e claustrofobica che l'assedio determina giorno dopo giorno. La descrizione delle battaglie, oltre che certosina nelle sue "specifiche" militari, è quanto mai vivida e suggestiva, laddove dal piano d'insieme si passa a quello "personale", gli scontri all'arma bianca, le orrende ferite, il dolore, la morte, la distruzione diventano incredibilmente tangibili.

Ma l'originalità, ed il punto forte al tempo stesso, del narrato è la ricostruzione della figura di Bragadin che segue un doppio filo: da una parte c'è la disamina oggettiva, storicizzata, delle sue azioni, con le annesse ripercussioni su sé stesso e sugli altri protagonisti, dall'altra c'è la lucida, minuziosa, analisi psicologica del personaggio con cui si scava in profondità mettendone a nudo vizi e difetti, pregi e virtù, in una sorta di oggettivante soggettivazione che raggiunge il suo culmine nella fase conclusiva del romanzo. Esemplare, in merito, è la narrazione dell'orrendo supplizio finale che viene visto prima con occhio asettico, nella sua mera oggettività (quasi attraverso l'obiettivo di un'ipotetica telecamera deputata a registrare gli eventi), e, poi, sondando i pensieri più intimi e genuini del protagonista, operazione che permette di restituire alla sua sanguinosa e reale portata ciò che finisce per essere, in un libro di storia, una mera e distaccata ricostruzione di fatti.

Il testo, con lo scorrere delle pagine, diventa sempre più intimista, accanto a Bragadin, assurgono a personaggi di carne ed ossa anche i vari Baglioni, Tiepolo, Martinengo, Querini (generali ed ufficiali delle forze cristiane), ma anche gli abitanti del campo avverso su cui si staglia, nella sua drammatica potenza, la figura di Lala Mustafà, il comandante delle forze di invasione, passato alla storia come spergiuro e traditore, che, per il dolore della morte del suo primogenito e per la beffa di essere stato tenuto in scacco per un anno da un manipolo d'eroi, si macchierà del più orrendo dei crimini: venire meno alla parola data al nemico.

Lala Mustafà finse, infatti, cortesia per tre giorni, poi, con un pretesto (il ritrovamento di una fossa comune dov'erano stati sepolti circa duecento prigionieri passati per le armi quando le scorte alimentari si erano ridotte al minimo) fece arrestare tutta la guarnigione cristiana ordinando l'impiccagione di Astorre Baglioni e degli altri capitani: Lorenzo Tiepolo, Gianantonio Querini, Alvise Martinengo (quest'ultimo impiccato addirittura tre volte per prolungarne l'agonia) e Manoli Spilioti, esponendo le loro teste infisse su picche. Per Bragadin meditò, invece, una fine ancor più agghiacciante: in primis gli fece mozzare orecchie e naso, poi lo fece rinchiudere in una gabbia esposta al sole per ben tredici giorni ed il 17 agosto, un venerdì, lo fece uscire, pestare e frustare, lo costrinse a percorrere due volte il perimetro della città caricato di gerle piene di sassi ed immondizia sulle spalle piagate, facendogli premere dalla soldataglia la bocca in terra ad ogni passaggio davanti al suo trono; non pago, infine, lo fece appendere per ore ad un'antenna nel porto, in maniera che tutti gli schiavi cristiani ai remi ed i prigionieri potessero vedere l'orribile sorte del loro comandante. L'atroce vendetta giunse al suo culmine quando il pascià fece legare Bragadin ad una colonna ed il boia iniziò a scorticarlo vivo, partendo dalla nuca e dalla schiena, lentamente e con metodo, ripetendogli "convertiti e la tortura finirà!". Alla fine la morte pietosa lo colse solo quando il coltello del carnefice giunse all'ombelico. La pelle impagliata sarà poi appesa come macabro trofeo all'ammiraglia della flotta di Lala Mustafà e portata a Costantinopoli.

Anni dopo mercanti veneziani, con la complicità di uno schiavo cristiano, riusciranno a trafugarla, ed oggi è conservata nella Basilica dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia, e venerata come una reliquia, sebbene la Chiesa non abbia mai elevato il martire Bragadin alla gloria degli altari.

La vigliaccata di Lala Mustafà fu tuttavia tale che egli dovette giustificarsi davanti al suo superiore Pertev Pascià, che si sentiva disonorato dal comportamento del suo generale. In Occidente il martirio di Bragadin accese gli animi e fu tra i motivi che spinsero le flotte cristiane a battersi come leoni fino alla vittoria, a Lepanto, due mesi dopo. Di tutto questo le pagine della Siliato ci rendono vivida testimonianza restituendoci l'immagine di un grande eroe di cui, nei testi di storia ufficiali, si sono perse le tracce.


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