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Maria Jatosti, una narratrice dalla penna incisiva e impietosa

Creato il 22 marzo 2013 da Stampalternativa

img_dg_newphp.jpeg L’immagine nota di Maria Jatosti è quella di una scrittrice che ha inciso con bisturi fermo e impietoso il corpo della propria esistenza a specchio di tempi difficili e contraddittori. Così ne Il confinato, ingiustamente dimenticato – e ora, dopo mezzo secolo dall’uscita, opportunamente riproposto – dove la tragedia pubblica del fascismo è rivissuta all’interno di un microcosmo familiare picco-lo-borghese – il padre, maestro elementare costretto al confino in uno sperduto paese della Calabria, la moglie e i figli che lo seguono, e lei, la giovane che si fa adulta, sperimenta sulla propria pelle le ferite e le lacerazioni e muta come per miracolo il torbido sangue nell’acqua purissima di un impegno, anche politico, coerente sino in fondo, cioè sino al limite in cui nuovo sangue comincia a colare: siamo già dopo la guerra, dopo la Resistenza, dopo le elezioni del 18 aprile (sicché allora la morte del padre segna davvero la fine di un’epoca ma non la nascita di un tempo nuovo e migliore).
Così pure, a distanza di lunghissimi anni in Tutto d’un fiato, libro del ’77 e accolto, viceversa con tutta l’attenzione che merita da critici e lettori. Tutto d’un fiato è nient’altro, a ben guardare, che la seconda parte di quel romanzo che è il romanzo della vita di Maria Jatosti, al quale seguiranno una terza e una quarta parte con Matrioskae Per amore e per odio, ivi, 2011. Nuovi traumi, nuove ferite, nuovo sangue: ma infine, stessi traumi, stesse ferite e stesso sangue, perché unica è la lotta, identiche le sconfitte. Un libro disperato, cioè il libro di una disperazione che si morde la coda, la più totale delle disperazioni: dove persino quel sublime esorcismo che è la letteratura sembra non adempiere al suo compito, se è vero che essa letteratura non serve neppure come esercizio liberatorio e la vita così riepilogata cede come di schianto, rinuncia a se stessa, alla vita, e si traduce in un’abdicazione tanto più dolorosa di ogni possibile dolore. Alla fine di tutto resta, appunto, solo un libro appoggiato sul comodino: niente e nessuno, neppure il figlio, a cui è dedicato, neppure la speranza che il figlio possa leggerlo, quel libro, potranno risarcirla; niente e nessuno potrà cicatrizzare il “grande buco nero” dell’albero dei sogni…
(Mario Lunetta)


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