Maria Pasquinelli
Claudia Cernigoi
Foibe
Dopo l’attività di intelligence tra Osoppo e X Mas (che tra le varie conseguenze ebbe anche l’eccidio di Porzûs) Maria Pasquinelli si dedicò finalmente alle indagini sulle foibe, cioè il motivo per cui l’anno prima sarebbe stata inviata nella zona dal ministro Bigini.
“Il 2 marzo 1945 partii da Milano per raccogliere in un rapido viaggio in Istria, la documentazione dalla quale risultasse evidente che gli italiani non erano stati infoibati in quanto fascisti, ma in quanto italiani. Per poter viaggiare in Istria, che era zona di operazione, mi presentai al comandante Borghese (…) gli dissi la mia intenzione di portare la documentazione al Sud (…) personalmente mi fornì documenti italiani e tedeschi per viaggiare in Istria (…) volevo portare la documentazione al governo Bonomi e speravo di poter concorrere ad anticipare uno sbarco italo-anglo-americano in questa terra” [1].
Il tenente di vascello della Decima Sergio Nesi conferma questi dati in un suo testo: “Maria Pasquinelli aveva avuto numerosi contatti con il Comando della Decima Mas, portando un’imponente documentazione sulle atrocità slave e sulle foibe, documentazione che veniva raccolta dall’efficientissimo Servizio informazioni della Decima attraverso i suoi agenti sparsi un po’ dovunque”. Ed aggiunge: “Effettivamente, la donna era un’agente del Servizio informazioni della Decima e gran parte della documentazione sulle foibe la si deve a lei [2]”. Nesi quindi conferma Maria Pasquinelli come agente della Decima, ma limita il suo lavoro alle indagini sulle “foibe”, non parlando dell’attività da lei svolta in Friuli e che abbiamo ricostruito nel paragrafo precedente.
Il 5/3/45 Pasquinelli si presentò dal giornalista del Piccolo Manlio Granbassi (che aveva scritto gli articoli sui recuperi dalle foibe nel 1943 [3]) e gli domandò “la collezione completa” degli articoli. Egli la “indirizzò ai suoi amici istriani”, ma il 15/3/45 fu arrestata a Visignano “dalla Luftwaffe per ordine diramato ai posti di blocco dalle SS di Trieste”; accusata dai fascisti “di contatti sospetti con elementi del governo del Sud” (cosa obiettivamente vera).
Fu portata a Pisino e poi a Trieste al carcere del Coroneo dove rimase fino al 6 aprile, ma “il materiale lo salvai perché poche ore prima dell’arresto lo avevo consegnato a una persona perché lo portasse a Trieste”.
È interessante che lei non dica chi sarebbe stata questa persona, ma soprattutto che gli inquirenti non glielo chiesero. Fu liberata con l’obbligo di presentarsi ogni giorno alle SS, ma sentendosi “pedinata”, dopo che le fu detto che era “in grande pericolo” per quei documenti che non erano riusciti a trovare, decise di lasciare “di nascosto Trieste”, e raggiunse la Lombardia l’11/4/45 “probabilmente aiutata” da Borghese, vestita da crocerossina della RSI. Disse di avere avuto da Granbassi “la necessaria assistenza per tale trasferimento” [4], raggiunse il quartier generale della Decima Mas, a Lonato (BS), dove consegnò i suoi rapporti a Borghese. Tornò poi a Milano e, “all’arrivo degli Alleati, affidò copia delle relazioni al maggiore Sandon e al capitano Bernardini, entrambi del Sim” [5].
Nesi ci dà una versione leggermente diversa: “dopo aver consegnato l’ultimo rapporto al tenente Lenzi [6], in divisa di Ausiliaria della Decima raggiunse Milano, sfuggendo così alla cattura da parte dei gendarmi di Rainer [7]”. Quindi, probabilmente, era Lenzi la persona della quale Pasquinelli non fece il nome nel corso dell’interrogatorio.
I due memoriali
Nel corso del processo Borghese asserì che la sua liberazione “era dovuta alla speranza che i tedeschi avevano di mettere le mani su un mio memoriale relativo alla questione giuliana” ma “esso era in salvo presso Borghese” che le diede ospitalità fino al 21 aprile, quando le riconsegnò il memoriale e due dattilografe per batterlo a macchina. Il 26 ne diede una copia a Borghese e un’altra la fece pervenire allo Stato maggiore del Sud [8].
Che i nazisti fossero interessati ad un “memoriale” di Maria Pasquinelli sulla “questione giuliana” è possibile, ma è lecito dubitare che tale interesse sia stato motivato dal fatto che l’autrice avesse dimostrato in esso che in Istria gli italiani erano stati “infoibati” non perché fascisti ma perché italiani. Sembra più credibile che, se veramente i nazisti l’avevano arrestata e volevano mettere le mani su un suo “memoriale”, questo riguardasse piuttosto le trattative tra CLN giuliano ed Osoppo friulana con la Decima Mas, in accordo con i servizi angloamericani e del Regno del Sud.
Pasquinelli avrebbe concordato con Borghese di inviare i propri rapporti sulle foibe alla Osoppo ed al generale Cadorna (il comandante militare del CVL, che aveva direttamente sotto di sé il maggiore Argenton) affinché questi li inoltrassero a loro volta “agli Alleati” [9]: e su chi fosse il suo possibile collegamento lo apprendiamo da una sua amica, nonché teste a sua difesa, Elisa Massai, che portò in udienza una dichiarazione rilasciata da Teresio Grange Catone nella quale si “accenna al tentativo dell’accusata di mediare tra l’organizzazione (Franchi, n.d.a.), le forze partigiane e la Decima Mas. Probabilmente era la persona alla quale la Pasquinelli aveva affidato le notizie relative alle uccisioni da trasmettere al Governo del Sud” [10]. Ma Grange era stato arrestato a Milano il 2/1/45 assieme al dirigente del CLNAI (nonché uno dei comandanti del CVL) Ferruccio Parri, e la “relazione” sulla situazione della Venezia Giulia era stata consegnata da Pasquinelli a Verdi l’8/1/45, sempre a Milano, pochi giorni dopo l’arresto di Grange.
Quindi ci troviamo di fronte a due “memoriali” redatti da Maria Pasquinelli: uno, rivolto al CLNAI ed agli Alleati riguardava la “situazione della Venezia Giulia”; l’altro, consegnato ad un ufficiale della X Mas relativo alle “foibe”. Due diversi rapporti per due destinatari diversi.
Apriamo ora una parentesi per parlare della Franchi di Edgardo Sogno.
Sogno e Teresio Grance
Edgardo Sogno, che era stato volontario franchista nella guerra di Spagna, dopo l’8 settembre operò come agente collegato con i servizi del Regno del Sud e quelli britannici nel Nord Italia. Dopo varie traversie, contatti, collegamenti, azioni fortunose e travagliate, spesso in disaccordo con il maggiore Maurice Page del SIS britannico (responsabile della Special force, cioè il Gruppo speciale del SIM italiano controllato dai servizi britannici) ma supportato da John Mc Caffery (l’ufficiale di collegamento tra SOE [11] britannico e CVL a Berna), Sogno diede vita alla collegamento Franchi che definisce “un’organizzazione militare autonoma, in collegamento diretto con gli Alleati e con il Comando italiano del Sud” [12]. All’interno del CLNAI Sogno rappresentò il Partito liberale, alternandosi con il dirigente delle formazioni autonome del CVL (cioè i monarchici) Mario Argenton, dato che i due furono arrestati e liberati a fasi alterne; si batté perché l’incarico di comandante del CVL venisse conferito al generale Cadorna e difese l’altro comandante di una formazione autonoma, Enrico Martini Mauri quando fu accusato dagli altri membri del CLNAI di operare una politica non unitaria in quanto anticomunista.
Il capo delle trasmissioni dell’organizzazione Franchi a Milano fu Teresio Grange Catone, che era stato precedentemente capo della missione mista britannica e del Regno del Sud Brybstone in Piemonte, dispersa nel novembre 1944 dopo l’arresto del suo operatore Giuseppe Tarantino Rudolf, che fece i nomi di due collaboratori. La radio fu salvata e Grange continuò a trasmettere da Milano dallo stesso stabile dove trovò alloggio (fine dicembre 1944), al rientro da una missione al Sud con Sogno, il presidente del CLNAI Ferruccio Parri con la moglie. La radio di Grange fu localizzata con il radiogoniometro e la Gestapo fece irruzione nell’appartamento, arrestando Catone e per una serie di circostanze furono arrestati anche i Parri; secondo il presidente del CLNAI Alfredo Pizzoni, il delatore sarebbe stato un agente della SS di origine ungherese Andreas Zolomy alias Bandy, che il capitano Guido Zimmer aveva infiltrato nella Resistenza milanese [13]. Sogno tentò di liberare l’anziano dirigente con un colpo di mano, ma fu arrestato ed incarcerato a Verona, dove ritrovò Grange; i due furono successivamente internati in un campo presso Bolzano e rilasciati al momento della Liberazione.
Nel dopoguerra Grange andò negli USA dove fu pilota civile e morì in un incidente aereo.
L’ufficiale di collegamento della Franchi tra il Friuli, Milano e la Svizzera sarebbe stato il comandante del gruppo a Milano, Sandro Cicogna [14], ma ricordiamo che anche il dirigente osovano Candido Grassi Verdi faceva parte dell’organizzazione di Sogno. Inoltre nella zona operava una missione collegata alla Rete Nemo della Special force diretta dal maggiore Page, di cui facevano parte il triestino Riccardo De Haag (che da Milano curava le trasmissioni radio della Franchi per la quale aveva il nome di battaglia di Fausto) ed il capitano di corvetta Luigi Podestà Puccini, che aveva avuto dei contatti piuttosto torbidi con i nazifascisti [15]. De Haag annota in un suo appunto che dei “documenti inviati da Missione Puccini” e “rimessimi tramite mio corriere da Puccini per inoltro Roma via Svizzera consegnati 12/2/45 a Sandro Cicogna della Franchi che li ha portati a Berna il 13” [16].
Alla fine della guerra
“Mi trovavo affacciata ad una finestra dell’edificio della X Mas sito a Milano in piazza Fiume quando la mattina del 26/4/45 avvenne l’adunata della Mas nella sottostante piazza, così potei assistere a tutta la cerimonia e potei ascoltare il discorso del Borghese” [17], narrò la teste Pasquinelli al processo Borghese.
Poi vi fu la resa, davanti al maggiore Argenton (presenza costante in questo racconto), e Borghese rimase fino all’8 maggio in una sorta di arresti domiciliari “sorvegliato dai partigiani” in un appartamento, quando il capo dell’OSS (la futura CIA) James Jesus Angleton lo prelevò per portarlo a Roma, dove iniziò la sua detenzione in attesa del processo che si svolgerà un paio d’anni dopo. Angleton, che da giovane aveva vissuto in Italia e non nascondeva le proprie simpatie per il regime fascista, vi era ritornato alla fine del 1944 come responsabile dell’X-2, il controspionaggio dell’Office of strategic services (OSS), che poi prenderà il nome di Central intelligence agency, la CIA. Faceva parte dei piani di Angleton mettere in salvo i vecchi arnesi del fascismo ormai sconfitto per poterli poi “riciclare” in funzione anticomunista (ciò avvenne anche con i nazisti, che vennero coordinati in una struttura diretta dal generale Reinhard Gehlen, la Rete Gehlen appunto, che negli anni ‘50 fu assorbita dai servizi della Germania occidentale). E fu sempre Angleton, una volta diventato dirigente della CIA, a manovrare l’opera di destabilizzazione in Italia, promuovendo le varie formazioni paramilitari anticomuniste che tanta parte ebbero, negli anni a venire, nella strategia della tensione, da Portella delle Ginestre fino alle stragi degli anni ’70 e che produsse tanti morti e tante tragedie.
A guerra finita
“Mi preoccupai moltissimo anche quando mi avvidi che Trieste e Pola soltanto erano state occupate dalle forze angloamericane (…) decisi di tornare nella Venezia Giulia per seguire sino all’ultimo la questione giuliana. Usai uno stratagemma con il Ministero della istruzione italiana: mi feci mandare a Roma poi rifiutai l’incarico e venni nella Venezia Giulia. Così Milano mi riteneva a Roma (perché io sono maestra a Milano) e Roma riteneva che fossi a Milano. Questo lo feci per poter usufruire dello stipendio” [18].
Se fosse vero si tratterebbe di una pesante truffa ai danni dello Stato, ma è lecito dubitare che nessuno se ne fosse accorto per due anni; d’altronde emerge anche che in quel periodo la maestra si occupava di una sorta di ufficio di assistenza organizzato a Pola (presumibilmente in forma ufficiale).
Ad esempio l’ex deputata di Forza Italia Antonietta Marucci Vascon ha riferito quanto le avrebbe detto suo marito, il cineoperatore Gianni Alberto Vitrotti [19], che era stato inviato a Pola nel 1946 a documentare la situazione. Pasquinelli avrebbe avuto un ufficio vicino al Municipio nel quale dava consigli ed assistenza a chi voleva andare in Italia ed avrebbe detto a Vitrotti che era in pericolo perché documentava la situazione istriana e c’erano già stati dei morti (non risulta peraltro che alcun giornalista sia stato ucciso a Pola in quel periodo), perciò lei stessa dormiva nelle casse da morto vuote nella cappella del cimitero e suggerì a Vitrotti di fare altrettanto. L’ex parlamentare ha così concluso, in modo piuttosto melodrammatico: in tal modo “si salvarono la vita” [20].
Dalla stampa apprendiamo che il 25/11/45 Pasquinelli giunse a Trieste per lavorare al Provveditorato agli Studi della città e prese alloggio, il 16 dicembre successivo, in una stanza d’affitto in via Manzoni 4, dove, dichiarò la sua padrona di casa, dava a volte ripetizioni a studenti ma faceva vita ritirata ed a volte si assentava per diversi giorni, senza lasciare detto dove andasse, tranne ogni tanto quando diceva alla portinaia che andava a trovare il fratello ricoverato a Udine per tubercolosi [21].
Nel gennaio 1946 chiese a Mirabella, uno dei proprietari del quotidiano triestino (collegato al CLN giuliano) La Voce Libera, di diffondere in tutta Italia un articolo sulla questione giuliana, e poi “ottenne anche dei finanziamenti dalla Dc e dal Partito d’Azione ed entrò in contatto con vari studenti ed esuli istriani. A partire dal giugno 1946 – quando i ministri degli Esteri delle varie nazioni iniziarono a riunirsi a Parigi in preparazione della Conferenza di Pace – la Pasquinelli prese ad accarezzare l’idea di assassinare un alto ufficiale alleato a Pola, in segno di protesta. Ma il progetto fu rinviato, fino a quando la decisione di consegnare Pola alla Jugoslavia non divenne irrevocabile. I suoi viaggi a Pola iniziarono nel luglio 1946. Qui lavorò per il Comitato per l’Esodo fino al 12 gennaio 1947. La data dell’omicidio fu decisa l’8 febbraio. […] Considerazioni generali: la donna è sincera, determinata e senza scrupoli” [22].
Strategia della tensione in Istria
Nel biennio 1946-1947, vari rapporti dell’intelligence alleata parlano di “elementi del separatismo siciliano” nella Venezia Giulia e a Trieste. Presenze decisamente sospette, vista la lontananza geografica con la grande isola mediterranea. Nel giugno 1946, il controspionaggio del SIM segnala la presenza nel capoluogo giuliano di “due militanti dell’Esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia (EVIS), provenienti da Catania: Tullio di Mauro, nato a Trieste nel 1923, ed Enzo Finocchiaro, nato a Catania nel 1925”. I due sono in possesso di speciali documenti di identità che certificano la loro appartenenza all’EVIS, firmati da un certo “colonnello Spina”.
Nell’estate del 1947, Londra scrive di uno Spina “comandante del Terzo corpo volontari della libertà (3° CVL) nella Venezia Giulia”. Si fa il nome dell’Unione monarchica italiana (UMI), un partito che, secondo lo spionaggio italiano, finanzia le attività terroristiche della banda Giuliano, dell’EVIS e di altre formazioni separatiste in Sicilia, Calabria e Basilicata tra il 1945 e il 1947. Il collegamento tra Salvatore Giuliano e l’UMI, a Roma, viene garantito dal neofascista catanese Franco Garase, alias “lo zoppo”, da Caterina Bianca, ex agente dei servizi segreti della RSI, e da Silvestro Cannamela, ex milite dei commandos della Decima Mas al Sud [23].
Turcinovich dedica un capitolo del libro-intervista a Maria Pasquinelli ai “verbali delle riunioni del CLN” istriano a Pola nel 1946, pubblicati a cura di Pasquale De Simone (che dovrebbe avere fatto parte di questo CLN) dall’ANVGD di Gorizia nel 1990 [24].
In sostanza il CLN di Pola chiedeva un “plebiscito che assicurasse alle popolazioni della Venezia Giulia di decidere del proprio destino), ma, afferma De Simone, “neanche i parlamentari amici come De Berti” vollero “occuparsi della faccenda”. Nel periodo erano in corso le consultazioni diplomatiche per la stipula del Trattato di pace che doveva definire i confini d’Italia, non solo il confine orientale, ma anche i territori da cedere alla Francia ed i confini dell’Alto Adige e le colonie.
Nel maggio 1946 le riunioni verbalizzate da De Simone mostrano un dibattito piuttosto agguerrito, a cominciare dalle parole di tale Coslovi (“nessuna causa si vince senza sangue, dobbiamo agire, abbiamo della gente disposta a tutto, un moto di popolo può risolvere”), per proseguire con quelle di un tale Laganà (anche questo indicato senza il nome di battesimo): “bisogna far sì che in Italia si rendano conto della nostra situazione e di quella che verrebbe a crearsi nell’Istria nel caso di una cessione alla Jugoslavia. Le mozioni a questo scopo servono a poco; bisogna creare disordine o fare in genere qualcosa di forte”.
Ed infine un certo Rusich: “La popolazione si sentirebbe rincuorata da una dimostrazione. Chi non è disposto a dare la vita perché qui non vengano gli slavi? Io sono disposto a darla (…) siamo dalla parte del diritto, per questo diritto dobbiamo lottare senza paura di dover spargere del sangue, anzi proprio dal sangue sorgerà per noi un maggior diritto”.
A questi propositi di creare una vera e propria strategia della tensione si mostrarono contrari altri membri del CLN, Porcari, Massimo Manzin, De Luca e Villa. Ed ancora va citata la dichiarazione di Leonardo Benussi: “noi partigiani italiani dobbiamo cancellare un marchio (…) d’aver combattuto con Tito (…) per salvare l’Italia nell’Istria e siamo disposti a combattere contro Tito per affermare la nostra italianità”.
Ma qui si interrompe l’analisi dei verbali del CLN pubblicata da Turcinovich e non siamo in grado di sapere quale linea sia alla fine passata. Però bisogna aggiungere la testimonianza di Mario Merni, dell’Associazione Partigiani Italiani di Pola, che a proposito di Pasquinelli dichiarò: “Veniva spesso a rincuorarci, garantiva il suo aiuto e ci parlava di un colpo di stato caldo” [25].
La strage di Vergarolla
Turcinovich aveva introdotto i verbali del CLN con queste valutazioni: “alcuni momenti del dibattito all’interno del CLN che è giusto percorrere perché spiegano l’atmosfera di quel 1946 a Pola, e forse sono una chiave di lettura della strage di Vergarolla ed anche del gesto estremo di Maria Pasquinelli che si sentiva coinvolta in quelle giornate di convulsa ricerca di una soluzione più di quanto potesse sospettare chi l’aveva incontrata e conosciuta” [26].
La strage di Vergarolla, dunque, che provocò 87 morti e decine di feriti tra i partecipanti ad una festa popolare. Che ne dice Maria Pasquinelli?
“Ricorda Vergarolla? Certo che ricorda, posa la fronte sul palmo della mano: ci dovevo essere anch’io, ci andavo spesso, ma scelsi una spiaggia diversa proprio in quel giorno, fu terribile” [27].
Quel giorno, il 18/8/46 a Vergarolla il circolo canottieri Pietas Julia di Pola aveva organizzato una festa sportiva popolare che prevedeva, oltre alle gare di canottaggio anche chioschi gastronomici, ed intrattenimenti. Ed anche l’esule Marina Rangan dichiarò che proprio quel giorno suo padre si impuntò per non andare a Vergarolla: “remava mio padre perché aveva deciso che si andava a fare il bagno proprio lì e non a Vergarolla con il barcone pieno di gente, come avrebbe voluto mia madre. Normalmente lui l’accontentava sempre, per il quieto vivere, invece quella volta si impuntò, forse per un provvidenziale sesto senso” [28].
Curiose queste forme di telepatia preammonitrice, considerando anche che “l’annuncio della riunione”, come scrive Lino Vivoda “venne pubblicato per parecchi giorni sul quotidiano locale italiano (…) come un implicito appello per la partecipazione in massa”, perché “ormai qualsiasi occasione di pubblica riunione era diventata per la cittadinanza motivo di corale dimostrazione d’italianità”. Ciononostante la patriota Pasquinelli proprio quel giorno disertò la spiaggia di Vergarolla, spiaggia sulla quale “giacevano accatastate ventotto mine marittime, residuato di guerra, prive di detonatori ma non vuotate dell’esplosivo in esse contenuto. Nottetempo quel deposito di morte fu riattivato da emissari criminali, giunti da fuori città, con l’inserimento di detonatori collegati ad un congegno per il comando a distanza dello scoppio”. E le mine scoppiarono, provocando una strage.
Nei fatti, nel corso della bonifica del porto, sulla spiaggia erano state ammassate le mine (di fabbricazione tedesca e francese, contenenti tritolo) che erano state raccolte e disinnescate da artificieri provenienti dal Comando Marina di Venezia comandati dal capitano Raiola che dichiarò successivamente che i lavori di disinnesco e controllo erano stati condotti da tre squadre, e che “era materialmente possibile che avvenisse l’esplosione delle mine, perché il tritolo (…) sarebbe esploso solo con l’innesco di un detonatore”.
E questo detonatore sarebbe stato collegato ad un congegno per il comando a distanza, del quale avrebbe denunciato la presenza, in una cava vicino alla spiaggia, il futuro esule e poeta Giuseppe Bepi Nider, già ufficiale dell’esercito italiano ed all’epoca nell’Associazione partigiani di Pola, che si era recato in sopralluogo subito dopo l’esplosione assieme ad un maggiore inglese della FSS [29].
Del problema dell’innesco ha parlato anche il generale Antonio Usmiani [30], perché le modalità di innesco di questo tipo di mine erano conosciute solo da coloro che le avevano in uso: militari francesi ed inglesi e della Decima Mas. Eliminando i francesi (che non erano presenti), sospendendo il giudizio sugli inglesi (che amministrando la zona potevano e non potevano avere interesse a creare una tensione di questo tipo), va ricordato che un anno prima, il 26/9/45, il Comando Marina Alleato di Venezia aveva assunto per il proprio Centro esperienze 18 ex membri della Decima Mas del gruppo Gamma (gli uomini rana specializzati nel piazzare mine marittime sotto le navi nemiche), tra i quali lo stesso comandante Eugenio Wolk [31], per affidare loro il compito di bonificare il porto di Venezia. Ed Usmiani avrebbe anche fatto cenno ad un “ufficiale della Decima passato ai partigiani” nella zona di Pola.
Ci furono naturalmente varie inchieste, che però non approdarono a nulla. Negli anni, pur in assenza di prove od indizi, la responsabilità dell’eccidio fu attribuita, dalla propaganda nazionalista italiana (poi assimilata anche dal comune sentire) alla Jugoslavia per mano dell’OZNA [32] (ad esempio lo storico Raoul Pupo scrive che tale strage avrebbe scatenato l’Esodo dall’Istria. e che “le responsabilità” della strage non furono mai chiarite, ma “l’effetto è assolutamente chiaro”, cioè avrebbe terrorizzato la popolazione italiana e sarebbe stata una delle cause scatenanti dell’esodo degli italiani [33].
A questo proposito viene spesso citata come “prova” un’informativa dei Servizi britannici che riferisce che “uno dei sabotatori” di Vergarolla sarebbe stato “Kovacich Giuseppe, uno specialista in azioni terroristiche nonché responsabile di numerosi delitti”, che “in passato era solito recarsi in macchina da Fiume a Trieste tre volte alla settimana”, che “lavorava per l’OZNA” e che dopo l’attentato di Vergarolla non si è più fatto vedere in città. Tali informazioni sarebbero state fornite “da una fonte attendibile del controspionaggio” [34]. Considerando che non vi sono altri documenti a conferma (il Kovacich non è neppure stato chiaramente identificato), e che un’informativa di norma non costituisce una prova certa, ma solo il rapporto di quanto riferito da qualcuno, non riteniamo ragionevole giungere, come hanno fatto non solo le associazioni irredentiste ma anche moltissimi divulgatori storici, alla conclusione che tale documento chiarisca definitivamente la questione della responsabilità dei morti di Vergarolla.
E del resto, oltre ai dubbi sollevati da Usmiani su chi avesse la possibilità reale di innescare nuovamente le mine ammassate in spiaggia, bisogna considerare che gli Jugoslavi, impegnati all’epoca a Parigi a far valere le proprie ragioni in merito ai crimini commessi durante l’occupazione nazifascista delle loro terre, non avrebbero sicuramente tratto politicamente profitto per avere messo in atto un’azione abietta come una strage di civili. Mentre chi affermò che non era il caso di temere di dovere “spargere del sangue” era stato l’esponente del CLN istriano Rusich, come abbiamo riportato all’inizio di questo paragrafo.
Non solo. Ricordiamo anche che il 9/2/47, il giorno prima dell’attentato operato da Maria Pasquinelli, altri atti terroristici insanguinarono Pola. Due bombe a mano furono lanciate conto la sede dell’UAIS (Unione antifascista italo slava), ferendo quattro persone, una delle quali morì il giorno dopo in ospedale, mentre un altro ordigno esplose nelle vicinanze della redazione de Il Nostro giornale, e la sede della DC fu messa a soqquadro nel corso di un’irruzione “probabilmente ritenuta poco sollecita con i nostri connazionali di quelle terre” [35]. (cont.)