Mario BERTASA – Tiro con l’arco

Creato il 17 settembre 2011 da Fabry2010

Da:

un’altra,
   un’altra volta

.IV

Fu una stagione in cui credevo
che le parole non mi bastassero.
Da allora ne ho imparate di nuove, ne ho pure inventate.
Oggi che provo scipito, e non l’avrei mai immaginato possibile, quel senso
trasecolato d’amore che sentivo diffuso in me per sempre,
sono voci a vuoto.
La menzogna più indecifrabile mi ha assalito, e scarnato – le parole
non servono più per gli oggetti, peggio quelli che non si toccano con carne
l’attimo in fuga mi interessa meno del vecchio infinito, nella scrittura
ne abbozzo un contorno una volta ma la volta dopo rinuncio e non ho rimpianti
in queste ore dovevo essere altrove, sono qui
, quando poi sarò altrove, magari per un oggetto più bello
che ho visto alla fiera, dovrò lasciare qui la scrivania
disabitata – vivere è moltiplicare le proprie assenze
ogni volta che si deve scegliere se partire o restare.
soltanto la morte è l’affermazione della presenza: ho, esistito.
eppure, come un bambino che vuol fare tutto da solo
mi lascio ad immaginare che la prossima stagione accadrà qualcosa

*

: III

Anche alcuni insetti hanno sbagliato stagione,
si sono svegliati in questo fragore di gennaio
ronzando presto contro i vetri dell’aula.
hanno insistito che mi affacciassi:
allora mi impressionò una polvere di sole che stemperava
il giardino in un bigio pastello
e la memoria di chi ci ha lasciato.
credevo che fosse primavera. Era invece un’altra
la presenza, e io segnato da quei sensi brulicanti
che mi avevano accennato a breve distanza

Non loro, ma compiangerei noi per queste requiemeternam,

poche

*

,

guardando alcune fotografie
con G** in università

non è vero che non c’è stagione
con colori più belli dell’autunno –
c’è una stagione che ha colori
ancora più belli e non è l’estate
né primavera né inverno

*

Da:
un’altra volta #5 (tavole d’espansione)

: I, 1

In primavera mi si sputtana il sistema immunitario
poco ossigeno permea fra le sbarre della gabbia toracica
quando le brezze pazzerelle si contaminano
di polveri e pollini sottili
mi alzo, mi sdraio, in preda alla paura di schiattare aggrappato
alla bocchetta del cortisone che mi corrompe lo scheletro
eppure

eppure
puntuale ai primi scorci
di vie soleggiate a gennaio
ai primi tramonti che
riversano nell’aria tersa
tutti i gradienti fra il giallo e il magenta
l’umore che s’addensa nell’addome fugge in prospettiva là
a quanto si potrà fare nel golfo della stagione che si schiude all’estate
Poi rammento la ciclicità del malanno che là mi attende
e tra i due estremi dell’arco, l’oggi agognato e il domani scomodo,
di tanto in tanto mi si affaccia l’elastico

varianti per “golfo”: vallo, catino

*

guardando alcune lastre delle mie vertebre
con un giovane dottore in una clinica

per sempre
il fisiatra mi ha detto
che questi esercizi dovrò
farli per sempre. Nella voce
aveva un che di dispiaciuto
, qualunque movimento
mi aiuti a vedere più a lungo amabile questo cielo che dovrò lasciare:
è vero, uomo di scienza, lo ripeterò per sempre, magari non in fretta,
prima di andarmene a dormire dopo
aver consumato la mia scienza quotidiana
o con in pancia il miele centellinato del mattino
o raccogliendo conchiglie
o sulla panchina di una stazione

(qui

centellinare il miele del mattino
raccogliere conchiglie
stare sulla panchina di una stazione
versi gesti omaggi faremo un Gran Finale al poetese unto e bisunto al più
scapicollato versificare occasionale pulsionale sciamannato
le carte cambiate non si rinserrano – a ritroso quante altre potrei tornare
a frullare a frollare. Ma no, per ora mi do pace.

*

Da: “[…] alle mie dislocazioni”

[tema]
ogni volta che riparto, cielo scremato o nebbia,
ritroverò i parchi dove mi sono disteso
anche il randagio conosce insenature fisse
nel suo andirivieni lungo la circonvallazione
le valli sparse dei teneri occhi
ritorno a quei luoghi per pregarli intatti
e se li desideri vissuti riconosceremo
la strada per una passeggiata in centro

*

[5]
sono stordito dall’immenso che si acquatta
nel palmo di un uomo; non riesco a rileggere
ogni parola che ho sottratto alla necessità
della consunzione se non mi inceppo a leggere
una vita da un’anatomia plantare – incespichi
malattie stati psichici topografia di callosità
eppure nessun fuoco è più ignoto ai chiromanti
e agli oroscopi di quello che sfuoca sul vespro

*

[19]
E’ così che ci vedo: piccoli in una
cartolina: due alberi si sono sformati
per anni alle raffiche, su un fianco,
ma le punte dei rami inorgogliscono di foglia;
due colline hanno ceduto molta argilla
e roccia al pianoro, ma sono più dolci
E’ così che ci vedo: il recinto è alle spalle
e i rami spogli per l’arte dei fiori.

*

Mario BERTASA
TIRO CON L’ARCO
LAMPI DI STAMPA (Milano, 2011)

*

Strumento antico e ricco di metafore, l’arco: tensione, resistenza, concentrazione, mira, volo, centratura dell’obiettivo. Ognuno ha il suo, di arco, come quello di Ulisse, in grado lui soltanto di (im-)piegare ai suoi obiettivi. Così la vita di ogni giorno (“e tra i due estremi dell’arco, l’oggi agognato e il domani scomodo”), e la scrittura, piegando e vincendo la resistenza della non-vita, dell’inerzia, della non-scrittura, della non-bellezza, nella tensione del fine o del sogno da realizzare?
L’arte, in questo caso la letteratura, nel suo farsi richiede inevitabilmente una tensione, per vincere la resistenza della lingua  – sempre più consunta e povera – per superare i déja vu dei discorsi, delle immagini, delle descrizioni e dei suoni abusati.
Il bel libro di poesia di Mario Bertasa, “Tiro con l’arco”, rende evidente questa tensione che anima ogni ricerca, coglibile anche sul piano formale nella titolazione delle sezioni e dei testi, nell’interpunzione originale: Continue to search. (John Cage), recita l’esergo che apre la raccolta.
Il racconto di giorni e di stagioni, di un vissuto personale ma declinabile su un piano generazionale, ma non solo, fa da sfondo a queste poesie distese che vedono alternarsi stati d’animo, meditazioni e quadri descrittivi; nel tempo dilatato e assorto che solo l’arte può creare, ben altra cosa da quello fuggevole della quotidianità; e del resto: “l’attimo in fuga mi interessa meno del vecchio infinito”. L’uso della prima persona e gli inserti di vissuto (“il fisiatra mi ha detto/che questi esercizi dovrò/farli per sempre”; “In primavera mi si sputtana il sistema immunitario/poco ossigeno permea fra le sbarre della gabbia toracica/quando le brezze pazzerelle si contaminano/di polveri e pollini sottili/mi alzo, mi sdraio, in preda alla paura di schiattare aggrappato/alla bocchetta del cortisone che mi corrompe lo scheletro”) contribuiscono a rendere viscerale e persuasiva questa scrittura,  preludendo a versi che fissano pensieri (“qualunque movimento/mi aiuti a vedere più a lungo amabile questo cielo che dovrò lasciare:/è vero, uomo di scienza, lo ripeterò per sempre, magari non in fretta,/prima di andarmene a dormire dopo/aver consumato la mia scienza quotidiana”) e squarci di bellezza (“eppure/puntuale ai primi scorci/di vie soleggiate a gennaio/ai primi tramonti che/riversano nell’aria tersa/tutti i gradienti fra il giallo e il magenta”). Meditazione e bellezza, dunque, s’intrecciano nelle delicate descrizioni della natura, e aleggia su tutto un respiro metafisico (“sono stordito dall’immenso che si acquatta/nel palmo di un uomo;”; “vivere è moltiplicare le proprie assenze/ogni volta che si deve scegliere se partire o restare./soltanto la morte è l’affermazione della presenza: ho, esistito.”; “credevo che fosse primavera. Era invece un’altra/la presenza, e io segnato da quei sensi brulicanti/che mi avevano accennato a breve distanza//Non loro, ma compiangerei noi per queste requiemeternam,//poche”).
“Un libro compiuto”, questo di Mario Bertasa, come si dice giustamente in copertina, “che ad ogni pagina però sembra ancora volersi espandere, saltar fuori, riprendere la riflessione, tornare indietro, un libro liquido…”, ragion per cui le riflessioni anzidette non hanno alcuna pretesa definitoria. gn



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