“Io non sono io nè sono l’Altro
sono qualcosa d’intermedio”
Allo stesso Pessoa annuncerà poi l’intenzione del suicidio (“Oggi, lunedì tre, mi ucciderò gettandomi sotto il Métro”). Non sarebbe stato un suicidio degno del ritratto precedente. Sceglie così una morte all’altezza della sua poesia, e la prepara come l’ultimo grande atto di una vita votata alla letteratura: è il 26 aprile 1916 quando Sá-Carneiro riunisce attorno a sè i pochi amici con indosso un frac e ingerendo un flacone di stricnina nella sua stanza all’Hotel de Nice di Parigi. Aveva ventisei anni.
Dell’edizione completa della sua poesia si occuperà lo stesso Pessoa, che ne tracciò un ritratto straordinario: “Genio nell’arte, Sá-Carneiro non ebbe né allegria né felicità in questa vita. Soltanto l’arte, che creò e che provò, poté dargli la consolazione di un momento. Sono così coloro che gli dèi elessero loro pari. L’amore li rifiuta, la speranza li ignora, la gloria non li accoglie. Muoiono giovani, o sopravvivono a loro stessi, cittadini dell’incomprensione o dell’indifferenza. Mario morì giovane perché gli dèi lo amarono molto”.
E ancora Pessoa, in una lettera all’amico João Gaspar Simões dirà di lui: “non ha avuto biografia; ha avuto solo genio. Ciò che ha detto è stato ciò che ha vissuto”. E questo breve omaggio a questo immenso poeta portoghese la cui fama fu oscurata poi dal gigante-amico Pessoa si chiude con Partenza, una delle sue meravigliose poesie testamento, un’altra poesia reinterpretata con raffinata sensibilità dalla cantante portoghese Adriana Calcanhoto, e con il suggerimento di procurarsi il quaderno “Quasi” edito dalla preziosissima Via del Vento, piccola casa editrice pistoiese che da anni dà voce alla grande poesia in splendida autonomia intellettuale.
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Nel veder scorrere la vita umanamente,
nelle sue acque scure io esito,
e a volte mi trattengo nella corrente
delle cose geniali su cui medito.
M’inquieta un desiderio di fuga
al mistero che è mio e mi seduce.
Ma subito mi trionfo. La sua luce
non sono molti che la sappiano riflettere.
La mia anima nostalgica dell’oltre,
piena d’orgoglio, s’inombra intanto;
ai miei occhi unti sale un pianto
che ho pure la forza di nascondere.
Perchè io reagisco. La vita, la natura,
cosa sono per l’artista? Nulla.
Ciò che dobbiamo è saltare nella bruma,
correre nell’azzurro in cerca della bellezza.
E’ salire, è salire oltre i cieli
che le nostre anime solo accumularono,
e prostrati a pregare, in sogno, al Dio
che le nostre mani d’aureola là dorarono.
E’ partire senza timore verso la montagna
avvolti di chimera e di irreale;
brandire la spada fulva e medievale,
a ogni ora ammassando in Spagna.
E’ suscitare colori impazziti,
essere artiglio imperiale intrecciato,
e in un’estrema unzione d’anima estesa,
viaggiare altri sensi, altre vite.
Essere colonna di fumo, astro perduto,
forzare i turbini alatamente,
essere ramo di palma, acqua di sorgente
e arco d’oro e fiamma tesa…
Ala lontana a sbattere pazzia,
nuvola precoce di sottile vapore,
ansia agitata di mistero e flagranza
ombra, vertigine, ascensione – altezza!
Ed io tutto mi do in questo finale di sera
alla spira aurea che mi eleva alle vette.
Pazzo di sfingi l’orizzonte arde,
ma resto illeso tra splendore e lame!…
Miraggio viola di fulgore incanto -
sento i miei occhi trasformarsi in spazio!
Mi espando, vinco, arrivo e oltrepasso;
sono labirinto, sono liocorno e acanto.
So la distanza, comprendo l’aria;
sono pioggia d’oro e sono spasmo di luce;
sono coppa di cristallo gettata nel mare,
diadema e timbro, elmo reale e croce…
Lo stormo delle chimere lontane si mostra…
che apoteosi immensa dei cieli!
Il colore ormai non è più colore – è suono e aroma!
Mi viene il rimpianto di essere stato Dio…
Al maggior trionfo, avanti quindi!
Il mio destino è un altro – è alto ed è raro.
Solamente costa molto caro:
la tristezza di non essere mai due.
Parigi, febbraio 1913