Mario Monti, FINALMENTE L’EUROPA INVESTE SUL SUO FUTURO Il Piano Juncker e gli investimenti pubblici Intervista all’Huffington Post – 27 novembre 2014

Creato il 27 novembre 2014 da Paolo Ferrario @PFerrario

FINALMENTE L’EUROPA INVESTE SUL SUO FUTURO

Il Piano Juncker e gli investimenti pubblici
Intervista all’Huffington Post – 27 novembre 2014

Qual è il suo giudizio del piano Juncker, l’Europa può davvero voltare pagina?
Ci sono certamente aspetti da approfondire, ma credo che sia un passo importante per ragioni legate all’orientamento strategico della politica economica, per ragioni relative a ciò che effettivamente viene messo in campo e anche perché credo che se l’Unione Europea vorrà essere coerente con questo che intende sia il pilastro fondamentale della politica economica dei prossimi anni, altre cose dovranno venire.

Cosa c’è allora di nuovo in questo piano?
Mai l’investimento come tale è stato messo così al centro dell’attenzione. Credo che sia la risposta giusta in questa fase della crisi economica europea, perché l’affanno verso la disciplina finanziaria – che era necessario ed è opportuno che ci sia stato – ha comportato un appiattimento dell’orizzonte delle scelte economiche. Si è guardato moltissimo al presente e al breve periodo, per mettersi in regola, e poco all’attività dell’Europa in termini di espansione della propria capacità produttiva. Mettere al centro l’investimento rimedia a questa distorsione. Incoraggerei poi a vedere tutti i punti che il presidente Juncker ha enunciato: c’è una strategia per gli investimenti molto più ampia, che non solo i soldi messi o quelli generati attraverso le garanzie. C’è una maggiore consapevolezza, abbastanza nuova, che l’Europa ha bisogno di maggiori e migliori investimenti.

Non c’è il rischio che rimanga una mera annunciazione di intenti?
Il rischio c’è. Ma vedo, e mi sembra importante, una nuova centralità, un cambiamento culturale, di quelli che in Europa diventano immediatamente spinta politica. Non sono idee nuove, ma da oggi sono su un traino. Perché se uno è su un binario morto o quasi, l’idea può essere eccellente ma comunque non marcerà.

Tuttavia non ci sono veri soldi in questo piano, si scommette ancora sull’effetto leva. Perché questa volta dovrebbe funzionare?
Perché ora si è stabilito, al massimo livello e con solennità che una grossa carenza dell’Europa è aver investito poco. Questo degli investimenti è un nodo anche ideologico. Recentemente Paul Krugman sul Nyt scriveva che la sfiducia verso il futuro ha portato a guardare quasi con fastidio agli investimenti, specie da parte di alcuni partiti politici. È così, e spero che lo sia sempre meno.

Una maturazione politica, quindi, visto che le condizioni economiche non sono cambiate.
Certamente non sono cambiate, ma è un’importante maturazione politica perché si riconosce che l’Europa ha guardato troppo poco al futuro e questo è particolarmente paradossale, perché l’Unione Europea, per come è stata costruita, si colloca rispetto agli Stati membri come l’entità che li incoraggia a guardare al futuro e alle future generazioni di cittadini. L’Europa è l’alleata delle nuove generazioni, però nel campo della finanza pubblica l’impostazione seguita finora aveva di buono che poneva una disciplina nel non caricare le generazioni future di debiti, ma di cattivo che era appiattita sul breve termine e non vedeva che la gran parte della spesa pubblica è un atto di breve termine, mentre la spesa per investimenti guarda al futuro.

Le sarebbe servito un piano Juncker nel periodo in cui lei era a Palazzo Chigi? Sarebbe cambiato qualcosa?
Naturalmente sì, ma non sarebbe stato possibile un piano Juncker quando ero primo ministro, perché allora l’emergenza dell’Italia, che era anche emergenza dell’Europa, era fare in modo che lo Stato italiano riuscisse ad arrivare a fine mese e la sopravvivenza dell’Eurozona dipendeva da se e come l’Italia e qualche altro Paese in difficoltà si sarebbero salvati, o sarebbero stati salvati. Era una fase in cui il problema era la sopravvivenza quotidiana. Essendo ben sistemata quella parte, per l’Italia e per altri paesi, si può e si deve dare uno sguardo di più lungo periodo.

Cosa accade ora al Patto di Stabilità? Sembra passare una linea più morbida, quella di consentire spesa per investimenti, anche a fronte di un aumento di deficit e debito, contabilizzata fuori dei vincoli europei ma il Patto resta centrale o è il primo sintomo che le regole vanno riviste o riscritte?
Secondo me ora il Patto di Stabilità può diventare più centrale, più serio e anche più rispettato di quanto in realtà sia stato finora. Per ora stiamo alle dichiarazioni di Juncker e di Katainen, che mi sembrano chiare: “i contributi degli Stati membri al Fondo europeo per gli investimenti saranno neutrali, per quanto riguarda il patto di stabilità e di crescita”. Se la Commissione è coerente, dovrà tenere conto di questa nuova impostazione nel fare d’ora in poi il monitoraggio del Patto di Stabilità. Ciò che i singoli Stati membri verseranno alla Commissione per alimentare questo Fondo sarà una spesa pubblica per investimento che non inciderà sulla spesa pubblica presa in considerazione per verificare il rispetto del Patto.

È come dire che, oltre a un tetto da rispettare, si dà agli Stati una veranda.
E questo avrà diverse implicazioni. Prima di tutto è una tardivissima applicazione di un principio di pura razionalità economica. Già nel 1996, quando la Commissione europea presieduta da Jacques Santer – e di cui facevo parte – presentò la proposta di Patto di Stabilità, mi battei perché il Patto distinguesse chiaramente tra spesa pubblica corrente e spesa pubblica per investimento, dato che “riconoscere il ruolo degli investimenti pubblici non è affatto in contraddizione con una politica di bilancio sana e rigorosa”. Ma Santer e il Commissario all’Economia, il francese Yves Thibault de Silguy furono nettamente contrari. Ripresi però il tema in varie occasioni nel corso degli anni successivi, sia in Commissione sia poi, da presidente del Consiglio, nel Consiglio europeo. All’inizio del 2013 ci fu una prima accettazione dell’idea, ma in termini molto limitati. Fa piacere vedere che ora la Commissione Juncker sembra accettare l’idea in modo più sostanzioso.

I singoli Stati avranno più flessibilità di spesa?
Non penso che si stia accogliendo una tesi di flessibilità – dobbiamo stare attenti a questo, quando noi paesi del Sud Europa parliamo di flessibilità, gli altri interpretano la parola come maglia larga nel rispetto delle regole. Invece, credo che saranno maglie strette, ma razionali. Se è così, ci saranno anche altre implicazioni. Oggi nascono flussi di finanziamento che vanno dagli Stati membri alla Commissione esplicitamente intestati agli investimenti e di questi si riconosce che non andranno a formare il deficit che conta per il Patto di Stabilità. Ma siamo in un’epoca in cui si vuole più sussidiarietà e più decentramento, e si introdurrebbe di fatto una distorsione in senso opposto. Ciò avverrebbe se il trattamento di favore – ma io direi “corretto” – ai fini del Patto di stabilità venisse limitato ai flussi di investimento che passano per il livello comunitario e non a quelli effettuati a livello nazionale.

Ci sono forse altri rischi di discriminazione. Se spetta all’Ue e alla Bei scegliere quali progetti di investimento finanziario accettare, conterà di più il paese più forte. E se la Bei inizia a finanziare progetti a rischio, potrebbe temere di perdere la tripla A del rating e accetterà ben volentieri un progetto tedesco, piuttosto che uno greco. È così?
La sua considerazione è maliziosa. Ma bisogna dire che il problema per molti paesi del Sud è che la capacità di assorbimento dei fondi europei è stata inferiore alla disponibilità.

Altro rischio è quello di una Europa a più velocità?
Non è un rischio, è nei fatti dal punto di vista istituzionale ed economico. Da quello istituzionale perché ci sono paesi nell’euro e altri no, in Schengen e altri no. Da quello dei parametri economici anche, compresa la capacità di usare i fondi strutturali.

Stavolta prevale la linea socialista su quella popolare?
Credo che questo abbia avuto un ruolo limitato. Cambia piuttosto, con la grave crisi economica dell’Europa e anche per effetto di una troppo lenta evoluzione culturale, la bussola di orientamento della politica economica, con una maggiore centralità per gli investimenti in tutti gli aspetti: non solo i soldi, ma anche una regolamentazione che li scoraggi meno. Si fa questo grossissimo passo in avanti, ma non è il cedimento di Juncker popolare di fronte ai socialisti – anche se anche queste sono contingenze che hanno il loro peso – ma sono le idee che un po’ per volta si affermano”

La sua è una soddisfazione più da accademico che ha sempre auspicato questo passaggio o più da politico che guarda al futuro dell’Europa?
A lungo andare, se la politica si regge su idee sane nel contenuto, è una politica migliore. A me piace moltissimo trovare gli argomenti pedagogici e politici per far prevalere le idee economicamente fondate.

Secondo lei come si sta comportando l’Italia in Europa con Renzi e Padoan?
Non credo proprio che questo interessi ai suoi lettori.


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