Mario Vargas Llosa a Palermo

Creato il 03 marzo 2016 da Pupidizuccaro

Una nostra lettrice ci racconta l’ultima visita dello scrittore a Palermo.

di Rossana Giglio

Non ero mai stata a Palazzo Steri prima di allora, perlomeno non per un appuntamento così elettrizzante. Sì, elettrizzante calza proprio a pennello, perché varcata la soglia con due ore di anticipo (non voglia il cielo che finisca ignobilmente nella sala dove allestiranno il proiettore) avrei quasi potuto illuminare l’intero edificio per quanta carica avevo addosso! Palazzo Steri – sala magna – ore 18:00. Queste semplici indicazioni mi martellavano in testa da settimane ormai, da quando durante un’incursione annoiata in internet avevo avuto notizia dell’evento:  il 14 settembre 2015 Mario Vargas Llosa sarebbe stato insignito della laurea ad honorem in Lingue e letterature moderne dell’occidente e dell’oriente. Dovevo esserci, a tutti i costi.

Mi presentai alla portineria del rettorato fingendomi una studentessa disorientata in cerca di indicazioni. Sì, in maniera riprovevole aggirai la rigida sorveglianza che imponeva l’ingresso solo venti minuti prima della cerimonia, ma la mia coscienza era davvero a riposo quel giorno, fatta fuori da un’esaltazione simile solo a quella di un tifoso di fronte alla finale dei mondiali di calcio. Così, eccomi seduta nella sala, io e pochi eletti. Impietositi da un gruppo di ragazze visibilmente in ansia, avevano pensato bene di consentirci l’ingresso anticipatamente con sincera ammirazione, o compassione, chissà.

La sala di per sé bastò a togliermi le residue energie che il mio corpo, provato da una giornata caldissima benché fosse già settembre inoltrato, aveva ormai a livelli minimi. Anche per questo, stringevo con mano tremante il fascicolo col verbale del Consiglio di Facoltà e gli interventi che avrebbero scandito la cerimonia. Mi accorsi solo dopo che vi era un compendio su ogni seduta, mentre nervosamente serravo la mascella scrutando le lancette in un’attesa che pareva non finire mai. Mi sentivo un’eletta, una privilegiata, mentre la sala rumorosa cominciava a scaldarsi insopportabilmente e l’amica cui avevo tenuto il posto con la risolutezza di una leonessa fece capolino dalla porta a vetri: non ero più sola finalmente.

Ecco, ha inizio la cerimonia. Il rettore e i docenti entrano nella sala in pompa magna e dietro di loro, lui. Un arzillo vecchietto avrei detto incrociandolo per la strada, ma lui era Mario Vargas Llosa, e io una bimba che stava per scartare il suo regalo di Natale. Mi girava la testa, per il caldo o l’emozione, non saprei dirlo, mentre i flash dei fotografi non smettevano di fissare quelle immagini che sarebbero passate alla storia. Confesso di avere prestato poca attenzione alle rituali formule di benvenuto del rettore La Galla e alla lettura della motivazione della professoressa Cancellieri e alla laudatio della Minardi.

Arrivato infine il momento in cui l’arzillo vecchietto si alza in piedi, un religioso silenzio circonda gli astanti che fino a pochi minuti prima avevano avuto l’ardire di avvicinarsi a lui per fotografarlo, con evidente suo fastidio, notai. Lo confesso, lo avevamo fatto anche io e Daniela, la mia preziosa amica, cui non avevo smesso un attimo di fare il resoconto di ciò che mi passava per la testa, come una pentola a pressione che senza una via di fuga avrebbe rischiato di esplodere. Sì, per un momento avevo immaginato il mio cervello spappolarsi in minuscoli frammenti e schizzare fino alle pareti e sulla preziosa tela di Guttuso, che giaceva come ospite bistrattata in fondo alla sala e di cui nessuno si era curato entrando.

A dispetto della veneranda età, lo scrittore peruviano, il premio Nobel per la letteratura, l’uomo che nella bozza di lectio magistralis adagiata come una reliquia sulle mie ginocchia aveva asserito di avere imparato a leggere a cinque anni (la cosa più importante che gli fosse accaduta nella vita dichiarava), iniziò a leggere senza occhiali tra lo stupore di tutti. Il piglio era deciso e la cadenza seducente come i suoi romanzi. Ero quasi ipnotizzata dalle sue parole, per niente altisonanti né astruse: una voce umile di un uomo affascinante e carismatico. Nel suo intervento, che non saprei quantificare nel tempo poiché per me assunse la forma di un unico e irripetibile istante, descrisse la sua esperienza di scrittore, il perché e come si scrive e a cosa serva la letteratura.

Spiegò a un pubblico attento che sono i temi a scegliere lui, esperienze che segnano la vita di un autore da non potere evitare di scriverci una storia. Nessun dovere, nessuna storia a comando, ma il permanere nella memoria di eventi che prima o poi urlano la loro ragione d’essere. È l’insoddisfazione riguardo la realtà il motore propulsivo della vocazione letteraria, almeno nel suo caso, precisa. Stupita prendevo mentalmente nota della lezione di umiltà cui stavo assistendo, senza riuscire a non annuire a quelle verità che di ovvio non avevano molto, se non la consapevolezza che fossero il frutto di un’esperienza di vita lunga e probabilmente dolorosa, o perlomeno pregna di attenzione e rivolta alla ricerca di sé e della verità.

Tra gli applausi scroscianti di un pubblico in visibilio Mario Vargas Llosa concludeva il suo intervento sfoderando adesso un sorriso rilassato. Dopo la consegna della pergamena e le telecamere dei maggiori giornali ormai paghe, mi avvicinai seguita da parecchi lettori speranzosi di potere stringergli la mano, con le braccia che tremavano per il peso dei suoi libri in mano. Feci appena in tempo, e prima che sparisse dietro il tavolo dei relatori lo guardai negli occhi pensando che forse in quel momento non avessi di fronte uno scrittore avvezzo a riconoscimenti di quel tipo, ma semplicemente un uomo fiero e felice. Ma questa è solo la mia mia visione romantica della storia, che mi permetto concludere rubando le parole al suo indiscusso protagonista.

Un popolo contaminato dalle finzioni è più difficile da rendere schiavo rispetto a un popolo senza letteratura o incolto. La letteratura è supremamente utile, perché è una fonte d’insoddisfazione permanente, crea cittadini scontenti, anticonformisti. A volta ci rende più infelici, ma ci rende anche molto più liberi.

      Mario Vargas Llosa