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Marketing, territorio e crisi economica: riflessioni senza l’economista

Creato il 29 agosto 2011 da Cultura Salentina

Carl William Brown, scrittore e filosofo italiano ha scritto:

“Se il benessere individuale significa il malessere collettivo, significa che i conti dell’economia non tornano.”

Quello che sappiamo di questa crisi economica è una serie interminabile di frasi fatte: è una crisi mondiale, nel Sud ha mietuto più vittime che nel Nord Italia, qualcuno ha giocato in borsa e ha speculato sui titoli, l’Unione Europea tentenna sugli eurobond, il ceto medio sta scomparendo, la disoccupazione dilaga, ecc. ecc.

Più che di aspetti economici stiamo in realtà parlando di un armaggeddon: il mondo civile, ordinato ed economicamente funzionante lascia il posto agli incubi di un fallimento in stile Grecia, con le calcolatrici di Tremonti che battono cifre a 8 zeri, i ministri che attrezzano le proprie scialuppe d’oro per saltar giù dal Titanic che affonda, l’inasprimento delle pene per gli insider trader, la caccia al centesimo perduto mentre si tira la coperta da tutti i lati, lasciando scoperta prima la testa, poi i piedi e poi puntini, puntini.

Intanto i calciatori milionari non vogliono la super-IRPEF; i parlamentari si lamentano perché — pare — esiste una casta di serie A e una di serie B; i redditi alti non vogliono passare per i soliti “stupidi” che pagano per conto degli evasori; i possessori di immobili milionari non si toccano perché sono il simbolo del liberismo economico che dà corpo alla democrazia moderna; le attività economiche della Chiesa in Italia non si intaccano perché sono il simbolo del raggiunto equilibrio fra guelfi e ghibellini; e nel frattempo, nelle città dove la squadra di calcio è entrata in serie A, campeggiano i cartelloni pubblicitari: “Sostieni la tua squadra!”.

Sì, è assurdo vedere gli effetti di una crisi economica senza che un emerito economista della Sapienza di Roma o della Bocconi di Milano ti spieghi i risvolti della catastrofe: cosa vuoi spiegare a chi ha perso il posto di lavoro per colpa della crisi? Sarebbe come spiegare agli abitanti di Cernobyl gli effetti del disastro nucleare di Fukushina: credo siano sufficientemente edotti sulla questione.

Non mi pare neppure abbia senso cercare di combattere la crisi con il marketing: che senso ha pubblicizzare a milioni di turisti le spiagge salentine se solo pochissimi potranno permettersi i 30 euro + 5 di parcheggio di un posto all’ombra dei lidi? Perché chiedere ai tifosi del calcio di comprare l’abbonamento per sostenere la propria squadra, dal momento che i calciatori non vogliono contribuire a sostenere i tifosi?

Anche se la crisi è mondiale, in ogni stato ha una sua peculiarità: nel nostro è crisi di valori, la tassa di solidarietà — nonostante il nome — resta una tassa che nessuno vuole sostenere, e men che meno i ricchi; a volte sembra che i poveri siano tali per incapacità personali e non per le pieghe bastarde che la vita riesce a prendere.

In Italia si può finire sotto i ponti nei modi più disparati: pagando le tasse fino all’ultimo centesimo; attraverso un divorzio giudiziale; per aver denunciato il pizzo; per aver deciso di non fare il cervello in fuga all’estero; per il desiderio di non accettare compromessi politici. Allo stesso modo ci si può arricchire nei modi più disparati e meno ortodossi: pubblicizzando servizi inesistenti; evadendo le tasse; attraverso una legislatura parlamentare o un appalto nella pubblica amministrazione; facendo affari con la mafia; speculando nell’edilizia post-terremoto; investendo in beni di lusso (è noto che il lusso non subisce gli effetti di una crisi economica).

Poi ogni tanto arrivano le crisi: come una livella colpiscono chiunque, l’unica differenza sta nel fatto che qualcuno soccombe e qualcun altro resiste. Ma le crisi servono: servono a capire che ciò che distrugge gli stati — tribù arcaiche lo avevano capito — è l’individualismo, il tentativo di arricchirsi ai danni di altri, lo stesso che ogni tanto fa sì che i lidi restino con gli ombrelloni chiusi, mentre la gente dà l’assalto alle spiagge libere (ironia della sorte, chi non ha mai avuto soldi per il lido non ne sentirà la mancanza). Cari economisti, questo lo capiamo da soli.

Mia nonna diceva: “Ci bbusca e dae, an paraisu ae” (Chi riceve e dà, in paradiso va); è una semplice regola di civile convivenza, applicabile alle piccole cose come alle grandi: se hai ricevuto un surplus, regalalo e stai tranquillo che al momento giusto verrai ricompensato. Esiste un paradiso anche in terra e se avessimo lavorato per tempo a costruirlo forse oggi avremmo superato indenni la crisi economica.


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