Parentesi sopravvenuta, emersa e fattasi spazio da sè tra i miei appunti programmati. Purtroppo My Teheran for sale (2009), pellicola di Granaz Moussavi (donna, regista e poetessa in Iran), si è rivelata all’altezza della realtà che rappresenta. Avvisata nella mia mail, attraverso un link, che l’attrice protagonista, Marzieh Vafamer, è stata condannata ad 1 anno di prigione e a 90 frustate dal regime iraniano di Mahmud Ahmadinejad per la partecipazione al film che (a detta della delatrice Repubblica Islamica) non aveva avuto l’autorizzazione ad essere proiettato in Iran, che è stato distribuito in modo illegale e dove la Vafamer ha mostrato il suo volto alla telecamera senza hijab, “qualsiasi velo posto davanti a un essere o a un oggetto per sottrarlo alla vista o isolarlo”. Definizione calzante (da fonte Wikipedia), metafora perfetta di un regime che osteggia l’arte, la sua pratica, e la lucidità che genera in chi la fa e in coloro che ne usufruiscono.
La pellicola di Granaz Moussavi, che ha coinvolto Marzieh Vafamer, è carica di un semi-autobiografismo che attraversa direttamente la protagonista (realmente attrice nella vita), ‘non sdoppiata’ neppure nel nome, portandoselo appresso nel personaggio che incarna: una giovane ‘donna-clandestina’ che tenta di realizzare le proprie aspirazioni e tensioni artistico-esistenziali nel sottosuolo della sua intimità, delle mura domestiche e dei luoghi fisici nei quali l’arte (e qualsiasi forma di espressione autentica di se stessi) in Iran è intrappolata-nascosta. Marzieh, matura, indipendente e di una bellezza trasudante consapevolezza, è sola negli affetti di sangue: espulsa-scomunicata dalla famiglia, che non può neanche tentare di avvicinare, perché ‘impura’, avendo deciso di non sottomettersi ad una voltontà altrui e maschile. Vive se stessa, fluendo ed implodendo, insieme alle persone che incrociano e condividono il suo esistere, dentro prove ‘blindate’ in un teatro-cantina (recitare in pubblico è proibito in Iran), dove continua ad esercitarsi e a sperimentare; dentro rave party in fienili; concerti ‘segreti’; intime serate in cui la frustrazione che genera la proibizione viene esplusa collettivamente nella stupefacenza da fumo, lettura e canto.
Nella vita di Marzieh arriva, portando insieme all’amore, la speranza di evasione-esilio (mista a timore della perdita di identità da sdradicamento geografico), Saman, un uomo emigrato anni fa in Australia, la cui semplicità di ricevere il visto carica i due innamorati della speranza di vivere una vita non più in-posticipo, rispetto all’indeterminabile futuro in cui tutti potranno esternare il proprio esssere, non nasconderlo. L’emancipazione definitiva dal paese, da parte di Marzieh, dovrà pagare il suo prezzo, ancora più alto (pare suggerirci l’autrice) quando il profumo della libertà è così rarefatto e smarrito. Marzieh Vafamer sta pagando realmente il proprio, con il fardello di una condanna umiliante anche nel corpo (condanna già impugnata dal legale dell’attrice, la quale aveva ricevuto un anticipo assaggio di persecuzione nell’arresto dello scorso luglio, al quale era seguito un rilascio dietro cauzione): “l’ora,qui, e subito!”, che tutti i cittadini di Teheran e gli Iraniani attendono in un silenzio materiale che è grido metafisico, l’arte lo accoglie e lo espande nelle sue casse di risonanza privilegiate, tra cui il cinema, che fa più male perché è occhio, sguardo diretto sull’ozono di immobilismo e atavismo attuale. Con grande amarezza e sconforto, appunto che il 15 ottobre è giunto un verdetto ‘folle’ per lo stesso Stato che lo emette, nel tarpare le ali creative e di vita di un cineasta (e del ‘neorealismo’ che lo connota) necessario più che mai all’Iran, proprio in questo momento: Jafar Panahi. Confermata in appello la sua condanna in primo grado a 6 anni di reclusione e (non riesco neanche a scriverlo, per quanto degradante possa essere per chi si nutre e fa del cinema) al blocco di esercizio della sua professione per 20 anni sia in Iran che all’estero: concretamente, il regista di pellicole come Il palloncino bianco (1995) e Il cerchio (2000), coscienza e sguardo della contemporaneità iraniana, non potrà scrivere, dirigere, produrre film, né viaggiare e rilasciare interviste, sia all’estero che in Iran. Riduzione di un anno per la pena a Mahmous Rasoulof, regista che aveva collaborato con Panahi, anche lui condannato lo scorso dicembre a sei anni di carcere.
Ho assorbito l’attesa frustrante, umiliante e carica di tensione verso il riscatto e l’azione di Panahi, dentro ‘la proiezione speciale’ a Venezia 68 di This not a film (il film è stato presentato al Festival di Cannes 2011, dove la presenza di Panahi e Rasoulof non è stata ammessa dal regime iraniano), documento-testimonianza dello stesso Panahi, costretto ai domiciliari e all’impossibilità di filmare, a partire già dalla sentenza di primo grado per aver girato un documentario sulle proteste contro la rielezione di Ahmadinejad, reo, per ciò stesso, di aver “messo a repentaglio la sicurezza nazionale” e di effettuare “propaganda contro il governo”… Oggi, con una tale sentenza, viene confermato il peggio, esorcizzato in This is not a film anche nei colloqui telefonici tra Panahi e il suo avvocato. Con l’aiuto del regista iraniano Mojtaba Mirtahmasb, entriamo nella vita da ‘recluso’ del cineasta (nella sua casa, tra gli oggetti e i piccoli avvenimenti che marcano la sua intimità, iguana familiare con spiccata personalità incluso), il quale autofagocita il proprio neorealismo, inglobando nella telecamera a mano, tra autosoggettive e riprese di Mirtahmasb, il proprio immobilismo creativo ed esistenziale. É già fare cinema, il suo racconto della sceneggiatura e la demarcazione dello spazio nel salone, nel tentativo-desiderio di ‘farci guardare’ il suo ultimo film, ancora seme non inoculato dentro un girato. Attraverso il rifiuto (abbandonando con rabbia e senso di inutilità che avverte, mentre ci prova, la descrizione del suo film fantasma) di velare un cinema (il proprio) che non ha mai voluto dare illusioni, Jafar Panahi ci rende un senso di isolamento collettivo che è prima di tutto individuale, privato; del come ogni cittadino iraniano vive e assorbe la scontata invalicabilità di certi confini. L’atto-ribellione finale (il prendere la camera a mano, impugnarla e seguire il giovane addetto alla spazzatura fino all’uscio del palazzo), è l’immagine con la quale ci auguriamo presto di rivedere Jafar Panahi, sperando che la mobilitazione internazionale possa bloccare l’esecutività di un verdetto aberrante.
Maria Cera