[...] Lo conoscevo, il panico, in ogni sua manifestazione. Sapevo, sulla carta e sugli altri, come gestirlo senza respingerlo, ma non mi era mai successo di conoscerlo così intimamente. I nostri incontri erano stati sempre piuttosto formali, più volte nel corso della mia carriera di psicoterapeuta, e sempre più frequentemente negli ultimi anni, le nostre strade si erano incrociate. Lui faceva visita, nei tempi e nei modi più disparati, a tanti pazienti che cercavano in me e con me risposte ai propri problemi. Io, ogni volta, lo osservavo da lontano per capirlo e accoglierlo. Solo così, scrivevano e sostenevano gli addetti ai lavori, sarebbe stato possibile andare oltre. [...]
[...] Per la prima volta ero felice, dannatamente felice per il fatto che, da psicoterapeuta, non fossi stata in grado di aiutarla, avevo fallito come dottore. Va bene. Questo, però, mi aveva regalato la possibilità di entrare nella sua vita come amica. Me lo sarei fatto bastare. Riscoprirmi innamorata, di nuovo, di una donna, a quarantatre anni, mi aveva esaltato. Lei aveva esattamente ciò che a me mancava. Era il coraggio, era la forza, era il suo modo irruento e a tratti scanzonato di prendere a morsi la vita e il cancro. Era bella. Una donna di cinquant’anni. Vera, piena, cosciente. Quel suo fare mascolino mi faceva sentire protetta. Al sicuro. Ero abituata, tutti i giorni, a simulare. Lo dovevo ai miei pazienti che venivano da me in cerca di risposte e che, per trovarle, dovevano per forza di cose avere di fronte una persona che non si facesse corrompere dai tranelli del quotidiano. [...]
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