Breece Pancake, nato in West Virginia, a South Charleston, nel 1952 e morto a Charlottesville, probabilmente suicida, nel 1979, ho cominciato a leggerlo, del tutto casualmente, proprio il giorno anniversario della sua morte, l'8 aprile. Chi lo conobbe ne parla come di un giovane timido e strano; verso i vent'anni si convertì con fervore al cattolicesimo. Nella sua breve vita pubblicò sei racconti, il primo dei quali, Trilobiti, uscì nel 1977 su The Atlantic. Nel 1983 questi racconti più altri sei inediti uscirono nella raccolta postuma The Stories of Breece D'J Pancake. La biografia dell'autore contribuì sicuramente a farlo diventare da subito una specie di figura mitica, ma si tratta comunque di racconti abbastanza straordinari anche a prescindere dalla sua giovane età.
Il fatto è che Breece D'J Pancake è uno scrittore eccellente: ipermacho, pieno di testosterone, ruvido, nervoso, racconta di miniere, minatori, camionisti, pugili, marinai sulle chiatte, intorno ai quali le donne sono fantasmi piagnucolanti o traditrici, puttane minorenni o vecchie madri. La scrittura è ellittica, richiede attenzione e immaginazione per colmare i vuoti, le storie non importano quanto l'ambiente, lo sfondo, i personaggi di contorno, le azioni. I personaggi non pensano, agiscono; non si parla mai d'amore. In compenso gli animali sono onnipresenti: il toro da marchiare, il combattimento di galli, la tartaruga uccisa e mangiata, le api bruciate, i maiali nell'agghiacciante Ora e ancora, i cani, i cerbiatti, gli scoiattoli, le volpi, gli opossum. Sono animali amati e uccisi, la caccia e le armi onnipresenti. Viene da interrogarsi come si sarebbe evoluta la sua scrittura se fosse vissuto leggendo Che ne sarà del legno secco, un racconto diverso, melodrammatico, gonfio.
Breece D'J Pancake è giovane e parla di giovani, è forzuto e veloce ma ha una voce da vecchio, non saggia ma priva di illusioni, slanci, forse persino di desideri. Prima o poi lo rileggerò in inglese perché la traduzione di Ivan Tassi è approssimativa, imprecisa e goffa. Introduzione di Giacomo Papi, postfazione di Percival Everett. Alla fine non sono le singole vicende che rimangono in mente, ma un mondo di uomini vivido, preciso, formicolante di vita e di morte. Una citazione: La terra era fragile, vasta, e morta.
La storia di David Leavitt, nato a Pittsburgh nel 1961, è molto diversa: si è affermato nel 1984 con i nove racconti di Ballo di famiglia (Family Dancing) e immediatamente etichettato al suo esordio come minimalista, anche se lui non si è mai riconosciuto come tale; la sua fama così precoce, dovuta anche al suo modo di parlare dell'omosessualità non come dramma ma come uno degli aspetti della vita, è stata confermata da La lingua perduta delle gru del 1986, cui hanno fatto seguito molti altri testi (in particolare Il matematico indiano del 2007) con alterna fortuna, tra cui una causa per plagio intentatagli da Stephen Spender (che la vinse) per Mentre l'Inghilterra dorme. E' anche vissuto a lungo in Maremma e ne ha scritto.
Questa raccolta, Un posto dove non sono mai stato del 1990, all'inizio può risultare irritante (la solita New York cool e fighetta, i locali, i tic da centro del mondo) ma diventa ben presto molto interessante con le sue vicende che danno un'impressione di futilità malgrado gli argomenti importanti che affronta (l'omosessualità, la morte, la malattia soprattutto). I personaggi, tratteggiati velocemente ma con grande acume, riflettono, si analizzano, le numerose figure femminili sono raccontate con sensibilità e precisione.
Sono storie magistrali di persone continuamente in bilico tra due scelte: eterosessualità o omosessualità, amare un uomo o una donna (e questa non è una ripetizione ma una semplice alternativa), gli USA o l'Italia, restare o partire, lavorare o non lavorare, il lutto o il sesso (La serata del coniuge). Curioso e virato decisamente al grottesco Le strade che portano a Roma, forse il meno riuscito o il più estraneo all'autore, in cui è descritta una famiglia italiana decisamente sopra le righe che vive nei pressi di Saturnia. Traduzione di Anna Maria Cossiga e interessantissima postfazione di Antonio D'Orrico. Anche qui, più che le singole vicende conta il fatto che con strabiliante capacità di scrittura David Leavitt descrive un mondo evanescente impegnato, nell'insieme, a traccheggiare con la vita.